«Le nostre famiglie sono unite dalla tragedia, che è una forma d’amore». L’ha scritto Francis Ford Coppola in morte di Ryan O’Neal, e chissà in quanti viventi hanno abbastanza memoria da sapere a cosa si stesse riferendo.
Nel 1986, l’ultimo lunedì di maggio, Griffin O’Neal, figlio di Ryan, e Gian-Carlo Coppola, figlio di Francis, sono fuori in barca. Non si sa bene cosa succeda, ma il figlio di Coppola viene sbalzato, batte la testa, muore. L’accusa dirà che la barca la portava il vivo, O’Neal inizialmente sosterrà che al timone c’era il morto, poi ammetterà d’aver mentito.
Poiché la vita imita spesso “Il padrino”, il modo in cui il figlio di Ryan O’Neal si giustificherà sarà spiegare che non ce la faceva a dire alla madre di Coppola che era il responsabile della morte di suo figlio. Non credo ci sia bisogno di esplicitare il riferimento, ma: è più o meno quel che dice Vito Corleone all’imbalsamatore cui chiede di sistemare il cadavere di Sonny. Non voglio che sua madre lo veda così.
È naturalmente una grandissima storia, i due venerati maestri della Hollywood che fu legati dal fatto che figlio di uno ha causato la morte del figlio dell’altro, è l’epica spostata di qualche millennio, ma la ragione per cui mi ha colpito è: è una frase senza senso.
Succede spessissimo, con le belle frasi, a volte sono così insensate che l’autore neppure le aveva mai dette (leggerezza calviniana, sto parlando con te, vieni, ti presento i secondi atti nelle vite degli americani, Francis Scott Fitzgerald veniva travisato ben prima di te, fate amicizia).
A volte – succede spesso con le canzonette o le poesie: se ti serve la rima, il senso non è una priorità – la frase funziona come suggestione e nessuno si ferma a considerarne la logica. La ragione per cui mi colpisce l’insensatezza e la citabilità della tragedia come forma d’amore è che, quando FFC scrive quelle parole, io sto ascoltando Baricco.
Alessandro Baricco, formatore culturale di noialtre che avevamo vent’anni negli anni Novanta, truffatore in chief capace di farti comprare libri orrendi solo per quanto è ipnotico nel recensirli, è anche un formidabile produttore di citazioni citabili. Persino quelle che non ne hanno mai letto un libro ne citano le frasi, e dico «quelle» ma sto parlando di me, che ho citato la frase delle cose che sono come domande e la vita poi risponde più volte di quante abbia citato libri che so a memoria ma che sono scritti con minor sapienza renziana.
Dico «renziana» in omaggio al re dei paraculi (Baricco, non Renzi) e alle due ore d’intervista orale (podcast, come si dice oggigiorno) che ha dato scegliendosi accuratamente un interlocutore che non avesse gli strumenti e le spalle per contraddirlo.
E che quindi accondiscende se Baricco dice che quando Renzi gli offre di fare il ministro della cultura, e lui va a Firenze a dirgli di no, gli altri «coi vetri oscurati, io con lo zainetto» (c’è un altro adulto al quale perdoneremmo lo zainetto senza rimetterci immediatamente le mutande e scappare? Non c’è, ve lo dico io: produrre citazioni citabili significa saper produrre mondi, anche uno in cui il sessantenne con lo zainetto abbia un senso), se Baricco ricostruisce il momento in cui a Renzi – con cui inscena una «gara d’arroganza» – dice di no e non sapendo come motivarlo fa quel che sa fare meglio, cioè dire una frase di quelle che poi ci scriveremo sui diari con gli uniposca, e quella frase è «io sono troppo ambizioso per fare il ministro», e allora Renzi gli dice «fantastico gesto tecnico, e allora chi ci mettiamo?», perché Renzi come noialtre che trent’anni fa guardavamo “L’amore è un dardo” è così contento della bella frase che già non gliene frega più niente che lui faccia il ministro, e poi tanto c’è Franceschini già pronto; ed è allora che, si lancia nel revisionismo storico senza contraddittorio Baricco, lui da Renzi capisce questa cosa qui, che «è più efficace una cosa imprecisa o al limite falsa che suona bene, che una cosa vera o precisa che suona in modo incomprensibile», e tutti – tutti, tranne l’intervistatore che s’è scelto – sappiamo che quella cosa lì è semmai Renzi ad averla imparata da Baricco, che negli ultimi trent’anni di cultura italiana è stato il più formidabile produttore di frasi che suonano bene pur non volendo dir nulla (assieme a Paolo Conte: che sia un affare di piemontesi?).
(Sì, è un periodo di ventisette righe. Sì, è un omaggio a quella volta che, a “Pickwick”, Baricco si mise alla lavagna e ci spiegò come facesse a star su una frase di Proust lunga una pagina, e le più fragili di noi diventarono mitomani e si convinsero che chi diceva loro di mettere un punto ogni tanto non capisse il loro genio).
«Quest’idea che tu scrivi per ammazzare gli altri che scrivono, che io avevo da giovane» Baricco dice di averla presa da Céline, ma forse la citazione più citabile viene un po’ dopo. Riguarda «quelli che erano intorno a me e che vincevano i premi scrivevano dei libri agghiaccianti», il milieu culturale romano degli anni Novanta («Gli anni Novanta bisogna averli vissuti per capire» è anch’essa molto citabile).
Forse la citazione più citabile è il momento in cui Baricco spiega che non è più quello di allora, quello che veniva usato per significare i mali del mondo, il tal politico scarso sta alla politica come Baricco alla letteratura, quello che scommetteva con gli amici che se apriva tre quotidiani ci trovava tre articoli che lo usavano per dire l’orrore di qualcosa, «non sono mai più stato così in cima».
(Non era mai esistita, prima, una cosa come quella brevissima stagione di tv culturale. Non era mai esistito un incantatore di serpenti con l’aspetto del centravanti di sfondamento – forse Bernard-Henri Lévy, ma cosa volete ne sapessimo, noi ventenni degli anni Novanta, di BHL: noi guardavamo la tv italiana, che prima e dopo Baricco è sempre stata fatta da gente che, qualora alfabetizzata, era rigorosamente inscopabile).
Forse la frase migliore su quand’era in cima, su quando era competitivo e «Noi umani quando combattiamo non siamo belle persone, nonostante tutta l’epica che abbiamo tirato su dall’Iliade in poi», forse la frase più invidiabile – Céline gliel’avrebbe invidiata un sacco, ma Céline è morto e quindi facciamo che per oggi gliela invidio io – e la citazione più citabile di quelle due ore che lasciano un po’ di malumore perché sembra di uscire dal cinema dopo aver visto “Il sol dell’avvenire”, c’è qualcosa di testamentario, forse la frase per cui ricomprarsi un’agenda e un uniposca è questa qui: «Io ero un arrogante, per carità, però c’avevo anche le mie ragioni». Se la sente Renzi, gliela arrubba subito.