Su novantasettemila delegati accreditati alla Conferenza Onu sul clima di Dubai (Cop28), duemila quattrocento fanno parte del settore dei combustibili fossili. È il 2,4 per cento del totale dei partecipanti. Un altro record per il negoziato del presidente emiratino, Al Jaber. Alla precedente Cop, i lobbisti dell’industria fossile erano solo l’1,4 per cento. A molti la notizia non è piaciuta. Eric Njuguna di Fridays for future Kenya ha dichiarato: «L’industria dei combustibili fossili propone nei negoziati false soluzioni, come il mercato dei crediti di carbonio e i sistemi di cattura». Rachel Rose Jackson, coordinatrice del centro studi Corporate accountability ha, invece, commentato: «Se Cop 28 non si conclude con l’abbandono dei combustibili fossili, sappiamo chi incolpare». I giudizi sono comunque da rimandare al 12 dicembre, giorno in cui si attende il testo finale dell’accordo di Dubai.
I dati sulla presenza delle compagnie oil and gas sono pubblicati annualmente dall’organizzazione Kick big polluters out. Quelli di quest’anno possono leggersi in due modi. Da un lato, testimoniano l’aumento di interesse delle aziende energetiche per le conferenze delle Nazioni unite e quindi dimostrano che le Cop anche se si concludono con accordi non vincolanti hanno comunque un impatto sull’opinione pubblica e quindi sui profitti delle multinazionali. Dall’altro, lasciano intuire che non sarà facile raggiungere un accordo per l’uscita dal sistema basato su petrolio e gas.
Il 5 dicembre, che la Cop 28 ha dedicato all’energia e alla giusta transizione, il presidente Al Jaber ha incontrato Fatih Birol, direttore esecutivo dell’Agenzia Internazionale dell’Energia (Iea). La Iea chiede risultati climatici ambiziosi. Nell’ultimo report, pubblicato pochi giorni prima dell’inizio di Cop 28, si legge: «I produttori di combustibili fossili devono scegliere tra peggiorare la crisi climatica o essere parte della soluzione», ma solo l’un per cento degli investimenti nel settore energia pulita viene dalle aziende oil and gas. Forse è questo, più che i dati di presenza dei lobbisti, il numero più preoccupante affinché sull’accordo di Dubai ci sia scritto «uscire dal sistema energetico fossile».
Nella bozza di trattato, pubblicata nel sesto giorno di negoziati, vengono riportate tre opzioni. La più ambiziosa prevede appunto «an orderly and just phase out of fossil fuels», cioè una ordinata e equa uscita dalle energie fossili. A sostegno della clausola ci sarebbero Stati Uniti, Unione europea e numerosi piccoli Stati insulari molto vulnerabili al cambiamento climatico. La seconda possibilità: «accelerating efforts towards phasing out unabated fossil fuels», accelerare gli sforzi verso l’abbandono dei combustibili fossili che non hanno sistemi di cattura del carbonio (unabated). Nella bozza c’è anche l’invito a potenziare le tecnologie di cattura del carbonio. Il tema, però, è quanto siano affidabili e convenienti questi sistemi e come possano conciliarsi con l’impegno di triplicare la capacità delle energie rinnovabili entro il 2030.
Terza opzione: nessuna menzione di phase-out dei combustibili fossili. Favorevole l’Arabia saudita, ma non l’altro Paese del Golfo, gli Emirati Arabi Uniti, che si erano aperti alla possibilità di riduzione graduale (phase down) dell’estrazione di gas e petrolio. Si tratta comunque di una bozza, il testo dell’accordo finale potrebbe cambiare.
I negoziati in corso nella prima settimana di Conferenza fanno parte del Global stocktake, il processo in cui quasi duecento nazioni stanno cercando di concordare piani climatici per limitare l’aumento della temperatura media globale al di sotto di 1,5 gradi rispetto all’era pre-industriale. Due mesi prima dell’inizio della Cop di Dubai, i Paesi avevano consegnato alle Nazioni unite le rispettive policy climatiche. L’Onu le aveva analizzate e il risultato era stato piuttosto deludente: con gli attuali piani, nel 2030, la riduzione complessiva delle emissioni sarebbe di solo il 2 per cento rispetto ai livelli del 2019. Per la scienza del clima, invece, per restare sotto la soglia di +1,5 gradi, il taglio dovrebbe essere del 43 per cento entro il 2030.
A confermare che non siamo sulla strada giusta, nello stesso giorno della bozza di accordo, è uscito anche il rapporto annuale del Global carbon budget, un gruppo di scienziati e scienziate che si occupano di analizzare le emissioni di gas serra. La sintesi del report: le emissioni globali sono aumentate dell’1,1 per cento rispetto al 2022 e se nulla cambierà, la quantità di carbonio che possiamo ancora immettere in atmosfera prima di superare il limite – solo in parte psicologico – di 1,5 gradi è di appena sette anni.