La freddezza con la quale il Pd ha accolto lo scoop di Repubblica sulla possibile leadership europea di Mario Draghi la dice lunga sullo stato di confusione mentale di questo partito. Anzi, no: non è tanto confusione quanto terrore che un clamoroso ritorno di Draghi possa fare saltare tutta l’ideologia dell’attuale Pd. Dietro il no comment di Elly Schlein non c’è infatti soltanto una legittima prudenza su quella che è a tutt’oggi un’indiscrezione giornalistica riportata da Claudio Tito, e cioè non che SuperMario scenderà in campo ma che Emmanuel Macron ci sta lavorando sino al punto di averne parlato con il Cancelliere tedesco Olaf Scholz, e scusate se è poco.
La scommessa su Draghi presidente della Commissione Europea nasce dunque nel cuore del riformismo europeo di governo, lungo l’asse Parigi-Berlino che in questa fase è in Europa quello che Joe Biden è negli Stati Uniti: l’unico argine a populisti e sovranisti di ogni risma. E non ci sono dubbi che la personalità di Mario Draghi potrebbe rappresentare la carta vincente nella partita europea tra democrazia e populismo, che è il vero clivage di questa epoca. In questo quadro si colloca l’incertezza del Pd, oscillante tra sempre più flebili istanze riformiste di governo e propaganda populista propria di una sinistra semplice testimone del disagio sociale. In chiave nazionale, quest’ultima tendenza facilmente leggibile nella postura minoritaria del partito (evidente in modo clamoroso nell’abbandono delle primarie), è un perfetto collante per una nuova alleanza strategica con i Cinquestelle, che non a caso è il partito che più di tutti odia Draghi. Del partitino di Nicola Fratoianni manco a dirlo: per questa sinistra estrema meglio avere contro un reazionario che allearsi con un riformista – come dicevano i comunisti esattamente cento anni fa. È dunque chiaro che sostenere Draghi per Elly Schlein e i suoi giovani collaboratori non è facile perché implicherebbe una seria revisione della propria politica.
L’operazione sarebbe inoltre accompagnata dal ritorno a Roma di Paolo Gentiloni, una figura destinata a essere centrale nella vita del Pd. Un uno-due che inevitabilmente sposterebbe l’asse politico-culturale di quel partito e riaprirebbe molti giochi sia sul piano delle alleanze che su quello dei programmi e chissà se anche sugli organigrammi reali. Non v’è dubbio che portare sulla poltrona più importante di Bruxelles una personalità come quella di Draghi rappresenterebbe il bastone tra le ruote del sovranismo e della reazione, soprattutto nel caso che tra un anno torni alla Casa Bianca Donald Trump. Ma sarebbe anche un intralcio forse decisivo all’involuzione populista della sinistra italiana e in parte europea (Pedro Sanchez, Jean-Luc Mélenchon), nel senso che il punto di rifermento di nuove politiche sociali ed espansive diventerebbe concretamente quello che da noi, due anni fa, chiamavamo “draghismo”, impasto di alta tecnica di governo e visione illuminata contro l’insipienza antisociale delle destre e il conservatorismo populista della nuova sinistra.
È evidente che occorrerebbe a Draghi un sostegno politico forte e per quanto possibile trasversale perché Macron non basta di certo. Ecco allora che per i socialisti europei potrebbe essere l’occasione per diventare protagonisti dopo anni di melina a centrocampo, come si diceva una volta, imboccando definitivamente quella strada chiara che in questi anni non ha avuto e tuttora non ha il coraggio di imboccare, testimoniata anche dalla debolezza dei suoi leader (si è visto recentemente in Olanda come sia andato Frans Timmermans).
Questo discorso dovrebbe essere colto al volo soprattutto dal Pd, che in teoria dovrebbe mettersi al servizio di un’operazione di questa portata (anche perché l’alternativa non esiste o non è entusiasmante: Ursula von der Leyen) che finalmente gli darebbe un orizzonte e un senso: battersi per mandare alla guida dell’Ue il miglior Presidente del Consiglio degli ultimi dieci anni (almeno), già sostenuto dal Pd all’epoca guidato da Enrico Letta che invece di fare una campagna elettorale coerente nel nome di Draghi fece tutt’altre capriole con il risultato che sappiamo. In teoria Elly Schlein dovrebbe già essere al lavoro su questa operazione, mollando l’idea del Pd come “grande Sel” che non sembra funzioni granché. L’occasione di riprendere il cammino con Draghi ma su una scala diversa, al tempo stesso più importante ma meno legata ai pasticci quotidiani della politica italiana, è davvero un regalo del cielo per un partito che forse non lo merita.