L’Europa formato bancomat si è, ancora una volta, inceppata. La carta ungherese abilitato al ritiro, smagnetizzata, ha mandato in tilt tutto l’Atm. E il summit dei leader chiamato ad approvare gli aumenti del bilancio pluriennale dell’Unione europea fino al 2027 e a stanziare oltre cinquanta miliardi di aiuti finanziari per l’Ucraina si trova costretto ad aggiornare i lavori tra fine gennaio e inizio febbraio.
Solo tra qualche settimana, insomma, tornerà a confrontarsi sulle risorse nuove (ventuno miliardi, nell’ultima ipotesi) e sulle riallocazioni delle poste esistenti nella speranza di sbloccare lo stallo su una decisione che richiede l’unanimità. Ma arrivando preparati con un paracadute, cioè un piano B – su cui sono già all’opera i tecnici della Commissione – per assicurare l’adozione della revisione del quadro finanziario ed eventualmente lo scorporo e l’inclusione in uno strumento ad hoc extra-bilancio, a cui parteciperebbero i ventisei Stati Ue meno l’Ungheria, di assistenza economica all’Ucraina. I famosi cinquanta miliardi (diciassette di sussidi, trentatré di prestiti) spalmati su quattro anni, cioè, su cui il premier di Budapest Viktor Orbán ha rivendicato, nella notte tra giovedì e venerdì, il veto.
L’operazione concordata in anticipo e messa a segno il giorno prima, con la “chaise vide” di Orbán che aveva consentito di dare l’ok all’apertura dei negoziati di adesione con Ucraina e Moldavia, non è stata replicata per il dossier bilancio. Il vertice si è avvitato su sé stesso e ha regalato agli osservatori un colpo di scena; uno di quelli che solo un personaggio imprevedibile come Orbán può mettere a segno.
L’autocrate (in miniatura) ungherese non è un attore politico irrazionale; anzi, da veterano del Consiglio europeo insieme a un’altra vecchia volpe quale l’olandese Mark Rutte, è un fine calcolatore con un’agenda precisa: il proprio tornaconto personale.
L’esito del summit dei leader Ue è, infatti, specularmente opposto alle attese della vigilia: passa l’allargamento dato per spacciato, si incastrano i fondi (per Kyjiv in prima battuta, ma pure per i partenariati sulla gestione dei migranti cari al governo italiano e sui nuovi margini di sostegni alle imprese) su cui sembrava esserci un barlume di sintonia. Orbán ha ceduto sui simboli e sui valori, ma tenuto il punto sulla cosa a cui tiene di più: fondi per tutti oppure per nessuno. Se di finanziamenti bisogna parlare, occorre non lasciare fuori dal confronto neppure un centesimo. Compresi quelli – e sono ancora tanti – che ancora richiede l’Ungheria e che rimangono nel congelatore: dopo lo sblocco, con un tempismo sfacciato, di 10,2 miliardi della coesione (che fanno seguito a novecento milioni di prefinanziamenti del capitolo RePowerEU), ne rimangono almeno un’altra ventina ancora in sospeso, tra Pnrr e fondi strutturali. Senza passi avanti sullo stato di diritto e sulle libertà civili, rimarranno al palo.
Ecco la strategia per guadagnare tempo e arrivare a inizio 2024 con l’obiettivo di far scucire a Bruxelles delle nuove risorse, nella speranza di comprare la compiacenza di Orbán. Se da parte di esecutivo europeo e leader «ci sarà apertura a risolvere la questione ungherese, allora il prossimo Consiglio europeo non sarà un fallimento», ha vaticinato parlando con i giornalisti a margine del vertice l’altro Orbán, Balázs (non sono imparentati), ascoltato consigliere politico del premier magiaro. Dopotutto, fa filtrare una fonte diplomatica anonima, con lo stop alle erogazioni europee, «l’Ungheria è diventata un contributore netto al bilancio Ue»; una posizione che, nel calcolo netto di entrate e uscite per il bilancio comunitario finisce per collocare Budapest sulla stessa colonna di Berlino e L’Aja. Ma c’è di più del mero mercanteggiamento; Orbán punta all’anima politica dell’Unione, ripetendo una strategia di blocco già attuata quasi un decennio fa ai tempi della cosiddetta crisi dei migranti. Il momento politico può dare il gancio per un colpo basso.
Orbán, però, non nasce dal nulla. Il contrario, semmai. Già esponente liberale anti-sovietico subito dopo la caduta del Muro di Berlino (come raccontato, con un aneddoto diventato negli anni virale, l’ex leader dei libdem Ue ed ex premier belga Guy Verhofstadt), e già primo ministro in quota popolari europei prima del deterioramento dei rapporti e dell’uscita di Fidesz dal gruppo, Orbán è un protagonista politico camaleontico dai tanti passati. Alcuni di questi si intrecciano a doppio filo con la Germania e i cristiano-democratici (via via persi, con Angela Merkel al potere), e con il suo tessuto industriale, in particolare automobilistico, ma pure editoriale.
Oggi Orbán appare isolato, certo, ma questo suo isolamento ne affila il coltello nella piaga delle istituzioni europee. Come ha fatto sul dossier allargamento, ricordando che la schiarita è solo momentanea (e che, in caso di adesione, il reindirizzamento dei fondi strutturali e della politica agricola andrebbe a danno di tutti gli attuali membri): «L’Ucraina non è pronta. Avremo molte altre occasioni per correggere la decisione presa» con l’ok all’avvio alle trattativa per l’ingresso.
Il riferimento (o la minaccia?) è al sentiero costellato di unanimità che si apre per Kyjiv, dall’adozione del quadro negoziale alla convocazione delle conferenze intergovernative. Ma non c’è solo l’Ucraina, con cui, oltretutto, le tensioni di confine sono di lunga data, dalla concessione occulta di passaporti ungheresi ai finanziamenti delle formazioni politiche della minoranza magiara. Con altri tre anni di mandato davanti a sé, l’ungherese sa che potrà spadroneggiare su tutta la linea anche nella prossima legislatura europea, quella che oltretutto si aprirà sotto la sua stella, dal momento che l’Ungheria avrà le redini della presidenza di turno del Consiglio dell’Ue dal 1° luglio 2024 al successivo 31 dicembre. E allora sì che saranno scintille, in particolare in un momento di grande vulnerabilità per le istituzioni Ue, impegnate con il rinnovo di Parlamento e Commissione e da una raffica di passaggi di testimone.
Il blocco di Visegrád – l’operazione nata sulle ceneri del blocco orientale per favorire l’integrazione euroatlantica di Ungheria, Polonia e Cecoslovacchia – sente tutto il peso di differenze che si sono sommate negli anni, in particolare sul sostegno a Kyjiv, e per il cambio di leadership, a Praga come a Varsavia. La separazione con la Polonia, iniziata già ai tempi dell’ultradestra del PiS al governo, è ormai diventato divorzio con il ritorno della nemesi Donald Tusk al governo.
Ma Orbán non è tipo da grandi formalismi, e sa darsi un gran daffare e farsi desiderare. E sullo sfondo si staglia il dialogo, se non serrato perlomeno regolare con due leader del Consiglio europeo: il sodale rosso-bruno Robert Fico, appena tornato al potere in Slovacchia e con cui Orbán condivide le simpatie putiniane e una certa insofferenza alla libertà d’espressione. Ma anche la stessa Giorgia Meloni, che infatti in uscita dal vertice non ha voluto esprimere giudizi sulle decisioni di una «nazione sovrana», a ulteriore dimostrazione – se mai ve ne fosse bisogno – del cortocircuito inevitabile nel cuore di un’alleanza di sovranisti.
Meloni è la presidente dei euro-conservatori dell’Ecr, che nella prossima legislatura europea scommettono di non stare ai margini dei traffici politici e di influenzare l’agenda dell’esecutivo Ue: per farlo, però, hanno bisogno di migliorare i numeri. Un ingresso della pattuglia del Fidesz di Orbán – oggi una dozzina – rappresenterebbe una cura ricostituente non da poco. E consentirebbe al leader ungherese di uscire da un isolamento Ue che finora sembra esser stato, tutto sommato, dorato.