«Or non è molto, nel secolo scorso, ricordo, si parlava di argomenti altrui, si parlava di morte e tu non parlavi. Morte del romanzo, quindi niente di serio. Solo mi sussurrasti, timido, innocente, sprovveduto, all’orecchio: “non so se sia morto, è spesso noioso, spesso lungo per me che non so leggere. Se è morto o non morto non so. E se fosse un non morto? Se fosse un vampiro?”.
Avesti un fremito, sentii l’alito del tuo sussurro spostarsi sul mio collo che baciasti come si aspira una goccia che scorre. Eri soltanto giovane. E non sei cambiato. Si vede da quello che scrivi che non ti piace il romanzo, ti piace forse lo scrivere, forse nemmeno, non il raccontare. Storie e storielle non sono roba per te».
Mi piace leggere pagine nelle quali il testo mangia viva la storia e fa a pezzi la ridicola presunzione di avere una vita da perdere a leggere come vivono i personaggi inventati. Non so se mi sono spiegato, certamente no. Il movente di un delitto? È il movente dell’autore, è lui che inguaia vittima e omicida. Personaggi così succubi, nemmeno nella vita, la vita reale (perché questi due termini mi sembrano contraddittori?).
Quella vita narrata che pare la vita è parodia della vita, la quale a sua volta sta messa anche peggio, essendo anch’essa parodia ma di modelli inventati o di non si sa che. Almeno in questo il racconto è veritiero: non solo quella scritta ma anche la vita vita, la cosiddetta vita vera è veramente parodica infine (non vi pare che tutti i racconti insinuino questo?). Come si dice? Il romanzo rispecchia.
Insomma, non è che ci sia un senso o che un senso si debba cercare, no, non un senso ma un testo, ecco qua: che la vita abbia un testo, almeno. Non una storia (non ci bastano già le insopportabili storie che abbiamo, le storie tra noi persone bisognose di chiacchiera, passatempo, abbinamenti, intrecci?).
Disperare finalmente col tocco e lo svolazzo festoso della parola fine scritta all’ultimo, finalmente non più sperare che un’altra pagina segua (debba seguire), non un’altra ancora, essere certi che è fatta (è fatta, è fatta), il testo è sazio, ha divorato le storie più di chi le ha lette, è appagato, infine sfinito, ha fatto fuori il racconto, dispera con soddisfazione. Chiudere il libro è molto più che aprirlo. È fatta, è fatta: che è molto più di sperare di fare. Il libro si chiude sul romanzo dandogli pace per sempre. Non ho nominato il linguaggio? Se si sapesse quanta sfiducia nel linguaggio ci vuole per lasciare il segno. Quanta sfiducia nel fatto (è un fatto?) che la parola indichi la cosa, che la significhi, che la rappresenti (la cosa che il tempo ha polverizzato). Quanta sfiducia ci vuole, non se ne ha nemmeno l’idea (è concretezza cruenta la sfiducia, altro che averne l’idea). E quanta sfiducia in chi legge ci vuole per fare bene il lavoro. Altro che storie e storielle. (Fingevo anche di commuovermi pronunciando queste ultime frasi, avevo gli occhi e il glande bagnati, melensi).
Ogni tanto, sì, esercito un po’ l’arte dello stuccatore, e come pasta da stucco uso il segreto, sì, lo cito spesso, è così decorativo, i suoi ovuli compatti, le sue volute labirintiche. È, sì, stucchevole il segreto, addensato, unitario, solidale, unanime, concorde con sé stesso, fine (la fine, come offerta) a sé stesso, ultimo esito, libro chiuso, altro che storie. Il testo è testo anche nel chiuso, anzi, da chiuso è totalmente esaustivo. Vorrei tanto che fosse pagato il mio silenzio. Nessuno si fa avanti? Non si fa avanti nessuno. Come non detto (ecco, è proprio così che vorrei dire), addio a tutta la cianceria dello scrivere, addio allo scrivere del quale sempre parlo sapendo che segno di scarsezza sia parlarne. Lo faccio apposta.
Proprio perché lo so lo faccio. Stucchevole anche questo. Sono uno stuccatore, decoratore specializzato nell’elargizione di stucchi sulle pagine. Ecco fatto.
Le storie, piene di menzogne, sotterfugi, espedienti, scappatoie, soliti inganni e celebri finzioni, ma sì, soddisfano quella propensione alla truffa e all’essere truffati che l’umanità bilancia nel continuo gioco altalenante di averci provato a guadagnarci con la vita mantenendo viva la stuzzicante sensazione d’andare a perderci, vita e tutto. Ma sì, le storie in mano a operai specializzati sono diventate nel passato in qualche caso testi ovvero una veritiera confessione di tutto questo.
È lo svelamento di un segreto il romanzo? (Quando la farò finita di porre queste stuccose domande o questioni; porre, sì, porre a cornice torno torno).
Sta iniziando un altro anno? Iniziamolo con una domanda: come li chiameremo questi tempi, questa età? Lo so come la chiameremo, la chiameremo “l’età anacronistica”, la chiameremo così. Cose del passato – generalmente brutture antiche, stivali nel fango, facce nella polvere, prigionie, isolamenti, torture, uccisioni, violenze, tinte oscure e tempi bui (così sento dire) – sono avvolte nella vaga membrana del futuro, un intreccio di giovani propositi innocenti e aspettative ancora incontaminate, linee irregolari, diramanti e fantasiose, connesse da velature trasparenti percorse da candidi reticoli marziani, qualcosa come l’omento, la ragnatela di immacolato e bianco grasso squisito, la rete del maiale in cucina, una frattaglia, un condimento avvolgente che più va avanti il tempo (ma sì di cottura) più si squaglia e scompare.
In una parola: il futuro, che sempre si scioglie intorno a noi, che siamo pietanze, per insaporirci. Saremo, come è noto, ingoiati dal sole che ci tiene in caldo per ora.
Cominciamo a dirci addio.
(15 Continua)