È purtroppo impossibile – almeno per chi scrive – avvicinarsi alle commemorazioni per il Giorno della Memoria senza un enorme peso. È il peso che sprofonda ogni giorno che passa, con sempre più violenza, stando sui social network e perfino conversando nelle discussioni private: quello della relativizzazione e della banalizzazione della Shoah, usate come clava per affermare la propria posizione su Israele o sulla guerra in corso nella Striscia di Gaza. Un fenomeno esplicito, non più sussurrato, ma gridato e reso virale dall’attivismo della performance che ormai invade qualsiasi spazio della nostra vita e che ci impedisce spesso di costruire riflessioni di senso.
L’infame accusa di genocidio nei confronti di Israele ha fatto compiere a questa strumentalizzazione strisciante il vero salto di qualità, come nel momento in cui si raggiunge il picco drammatico: l’inversione astorica «tra vittime e carnefici», nelle parole della professoressa Deborah Lipstadt. Non desidero, tuttavia, concentrarmi sul perché io ritenga del tutto infondate le accuse di genocidio nei confronti dello Stato ebraico: ci sarà tempo e modo, e comunque c’è chi ne ha scritto sicuramente molto meglio di quanto potrei fare io sia dal punto di vista giuridico (qui e qui) sia dal punto di vista dell’elaborazione concettuale (qui).
Il meccanismo mentale e la facilità con cui si diffonde meritano una riflessione e un gigantesco pentimento collettivo sul fallimento educativo che è sotto i nostri occhi: la tentazione di molti, soprattutto auto-collocatisi nel campo della sinistra (ma non solo), di paragonare lo Stato di Israele al nazismo, di paragonare la storia e i numeri delle vittime civili di un conflitto durissimo come quello di Gaza con quella dei sei milioni di ebrei scelti casa per casa in ogni angolo dell’Europa e delle zone occupate dai nazifascisti per essere prima fatti stazionare nei ghetti, ed essere poi liquidati nei campi di concentramento e di sterminio.
«Non mi stupisce che cresca l’antisemitismo, guarda cosa fa Israele» è stato per me uno dei campanelli d’allarme, suonato da una persona seduta a fianco a me non più di due mesi fa. Poi è stata la volta di «gli ebrei sono i nuovi nazisti», riferitami da due persone appartenenti a generazioni diversissime fra loro. Un ragazzo mi ha scritto che «abbiamo passato un olocausto indignati e ora che possiamo fermarlo nessuno agisce».
Infine, nel già citato crescendo, è venuta l’infame condivisione dei caroselli in cui si paragonava la Striscia di Gaza ad Auschwitz, condivisa e apprezzata da persone iscritte a partiti politici, da militanti e simpatizzanti di movimenti e partiti che solitamente si dicono in prima fila nella difesa dei valori della Resistenza italiana.
Forse ha ragione Michele Serra quando dice che non dobbiamo guardare i social network? Può darsi, ma non sfuggirà ai più che le cose che ho scritto sono moneta corrente nella conversazione distratta sullo Stato di Israele, e non da oggi.
Lo aveva detto pochi mesi fa l’Istituto Cattaneo: dopo il 7 ottobre, persino prima che iniziasse la risposta israeliana su Gaza, già il 46.2 per cento degli studenti universitari del Nord Italia riteneva Israele al pari della Germania nazista (la percentuale è poi cresciuta ulteriormente). Queste risposte hanno perfino una cornice ideologica presentabile che le legittima, e che ci impone di parlare pubblicamente di questo tema: penso a «l’analogia ci permette di conoscere il mondo» di Masha Gessen, utilizzato per tracciare un paragone tra il Ghetto di Varsavia e la Striscia di Gaza durante il discorso di accettazione del premio Hannah Arendt.
Penso ai giornalisti che sui quotidiani italiani se la prendono con Hitler perché con la Shoah avrebbe permesso a Israele di agire impunemente per decenni. La distruzione delle categorie analitiche, l’impoverimento delle parole e l’incapacità di distinguere trovano nell’analogia tra nazismo e Shoah, da un lato, e tra Israele e Palestina, dall’altro, forse l’esempio di maggiore successo.
Un lascito, questo, che si deve anche all’Unione Sovietica, che ha fatto della demolizione concettuale dello Stato di Israele attraverso la legittimazione della sua demonizzazione nel mondo intellettuale, uno dei punti di forza della propaganda a uso e consumo dei propri simpatizzanti occidentali.
Questa volgarizzazione della Shoah, e l’indecoroso uso delle sue parole per dare voce alla propria indignazione, è un problema gigantesco che interroga il modo di fare memoria in questa parte di mondo. Associare Auschwitz e Gaza, e associare lo Stato d’Israele al nazismo, dimostrano non soltanto una profonda ignoranza della storia e dell’attualità, ma sottintendono la perversione di accusare la vittima degli stessi crimini che ha subito.
La denuncia di questo fenomeno, peraltro, prescinde dal fatto che questa è una guerra condotta contro un’organizzazione terroristica che usa i civili come scudi umani, che combatte da dentro le scuole e gli ospedali, che usa le ambulanze per trasportare i miliziani, che ha costruito centinaia di chilometri di tunnel sotto gli edifici civili della Striscia, mettendo in pericolo interi quartieri: a sconvolgere è proprio la tentazione quasi ossessiva dell’osservatore occidentale di proiettare la colpa del nazismo, rimuovendola dalla storia e facendole fare un salto logico e temporale, sul Paese che è stato fondato per permettere agli ebrei di autodeterminarsi senza il rischio di essere oggetto dell’antisemitismo dell’autorità politica di turno.
Tralasciando per un momento l’abissale differenza tra un progetto scientifico di eliminazione totale di un popolo e una guerra tra un esercito regolare e una milizia, quest’ultima scatenata da un massacro che ha pochi termini di paragone nella contemporaneità, ad allarmare è l’uso perverso delle parole. È la strumentalizzazione della storia della vittima a costituire un unicum nel dibattito contemporaneo sui conflitti.
Non è un caso, in questo senso, che le immagini dell’antisemitismo canonico siano masticate e riprodotte con nuovo maquillage durante le manifestazioni contro Israele: i bambini muoiono tragicamente in ogni conflitto armato, ma l’unico Stato che viene associato all’idea di essere uccisore di bambini per definizione è lo Stato degli ebrei, esattamente come erano gli ebrei, nel corso dei secoli, a essere accusati di infanticidio sulla falsariga della cosiddetta «accusa del sangue»; lo Stato ebraico ha condotto molte più guerre di quelle che ha iniziato, eppure lo Stato ebraico – e solo lo Stato ebraico – viene rappresentato nelle manifestazioni per la Palestina con la svastica al posto della Stella di David.
Non so se ci sia il tentativo, qui, di portare a supremo compimento la legge di Godwin, secondo cui «più una discussione va avanti e più è probabile che si paragoni qualcuno o qualcosa ai nazisti o a Hitler». So però che ci vuole una buona dose di pelo sullo stomaco per distorcere la realtà storica e definire come equivalente alla Germania nazista lo Stato che è tutt’ora patria di quasi centocinquantamila sopravvissuti della Shoah.
Lo svilimento della storia dello sterminio degli ebrei è un problema serissimo del nostro tempo, molto più di quello che pensiamo, perché è sintomatico di una debolezza strutturale del nostro sguardo sui fatti e sulla storia: non siamo capaci di comprenderli e dunque distorciamo significati apparentemente comprensibili per il tramite di analogie che finiscono col farci dimenticare i contenuti stessi della storia.
Ma se vale tutto, se tutto è Shoah, se tutto è Auschwitz, se tutto è genocidio, se tutto è nazismo, allora niente lo è, e a uscirne con le ossa rotte è la comprensione dei fenomeni storici.
Se questo è il lessico con cui parte della nostra società si approccia all’attualità e al 27 gennaio, non c’è da stare sereni per lo stato di salute della nostra opinione pubblica e c’è da temere per la resistenza dei nostri anticorpi agli antisemitismi vecchi e nuovi. Nell’avvicinarsi alle commemorazioni per il Giorno della Memoria è arrivato il momento di fare i conti con questa realtà.