Anche la politica ha i suoi compleanni e i suoi anniversari. Quest’anno ne ricorre uno tra i più affascinanti e complicati da ricordare. Cento anni fa, il 10 di giugno, una banda di sicari fascisti agli ordini di Amerigo Dumini rapiva e uccideva Giacomo Matteotti. Da decenni si discute su chi sia stato il mandante. Propendo per il Duce in persona, tutto va in quella direzione. È contro di lui che Matteotti si scaglia a Montecitorio accusandolo di brogli, minacce e assassinii nella campagna elettorale dell’aprile 1924. È contro di lui – meglio: contro il fratello Arnaldo – che Matteotti leva l’accusa di tangenti pagate dalla Sinclair OIL. È contro di lui che Matteotti lancia l’accusa di falso in bilancio: un bilancio dello Stato dichiarato in pareggio quando il buco era di oltre due miliardi di lire. Furono la coerenza e il coraggio di difendere pubblicamente libertà e parlamento che avviarono Giacomo al patibolo. Un’azione che condusse quasi da solo negli anni con continue e documentate denunce a partire dal 1921, la causa di bastonature, sevizie, esilio dal Polesine, isolamento, offese, ritorsioni che si abbattono sulla famiglia, figli piccoli inclusi.
Il termine che più di ogni altro rovescia la vulgata storica è: solitudine. Ha scritto Julian Barnes che «la storia è fatta dalle menzogne dei vincitori». Un’affermazione forte, eppure qualche fondamento ce l’ha. Se ti immergi nella grande maggioranza dei testi che parlano di quel periodo è tutto un fiorire di antifascisti. Sì, l’antifascismo esisteva, era minoranza e non sempre si distingueva con nettezza dalle collusioni con rappresentanti del regime da parte di esponenti di movimenti politici cattolici, liberali o di sinistra.
La solitudine di Matteotti nel combattere senza tregua il fascismo, senza mai venirne a patti, anzi ergendosi come estremo difensore degli ultimi e del Parlamento nel quinquennio che va dal 1919 (nascita dei fasci di combattimento) al 1924 è di una rarità davvero preoccupante. Un comportamento eretico in un’Italia che pian piano sposava la politica di Mussolini, dialogava con lui, si comprometteva felicemente con il nascente regime. In solitudine, dunque, fino alla morte. Certo, vi furono anche altri parlamentari, da Giovanni Amendola ai socialisti unitari, da Alcide De Gasperi ad Antonio Gramsci, intellettuali come Piero Gobetti, giornalisti, da Pietro Nenni a Ines Donati ad Albertini, sindacalisti con Bruno Buozzi alla testa, che attaccarono il governo del Duce, ma la continuità, la pervicacia, il fragore appartengono solo a lui, al socialista unitario di Fratta.
La prima verità che il centenario dovrebbe sottolineare è proprio questa, lo ripeto: la solitudine. La seconda verità i solidi legami del governo di Mosca con il governo di Roma che incisero sulla condotta dei comunisti italiani. La terza verità l’odio che i comunisti italiani scatenano contro Sturzo, Turati, Amendola, contro il corpo senza vita di Matteotti, tutti considerati a traino del fascismo perché immaginano soluzioni parlamentari per defenestrare il Duce. Il termine social fascismo viene coniato proprio in quei giorni.
La quarta verità è di una attualità disarmante: nei frangenti di crisi socioeconomica prevalgono spesso le estreme e gli uomini (o le donne) soli al comando. Ma siccome la storia non è maestra di niente e una lettura così radicale, tuttavia reale, della vita di Giacomo rischia di compromettere un racconto storico penetrato nell’immaginario collettivo da anni, il centenario potrebbe rivelarsi incompiuto. Un bel ricordo del martire, dell’eroe, senza riflettere su chi fu davvero, sull’uomo che si oppose ripetutamente al fascismo, che non credette nell’illusione della rivoluzione bolscevica, che giudicava le scuole, gli ospedali e un lavoro il passo decisivo per togliere dall’inferno i disperati. O l’anniversario ruota attorno a queste verità, dunque scava nell’ombra, o non sarà altro che la ripetizione di ciò che si crede sia accaduto davvero, fantasia e realtà.