Luoghi comuniL’ambizione del romanzo è essere un sorriso dal grande appetito

La diciottesima puntata del romanzo in corso di Pasquale Panella, opera di cui non sa nulla, neanche il titolo: «Le descrizioni giocano a nascondino schiamazzando e radendo in corsa il suolo come rondini»

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E i luoghi comuni? Ma come no, con quanto affetto io li avvicinai, e quanto affetto riversarono su di me dalle ampie imboccature di brocche dozzinali, panciute e dipinte a fiori facili, che mi davano l’avvio spronandomi, premendo e pizzicando, matronali con quei loro manici a due anse, e sussurrando “vai, lasciati andare” atteggiando un beccuccio vezzoso sull’orlo delle loro bocche svasate. E sì, i luoghi comuni sono contenuti in queste fresche terracotte dipinte, uguali a quelle, anzi le stesse, con dentro il vino sfuso della casa che sguazza allegro quando arriva al tavolo.
Ero felicemente il loro valletto, mi occupavo del loro risveglio.

I luoghi comuni, questi giocattoli sciaguattanti e loquaci a saperli attivare – anatre di legno caricate a elastico ritorto, per esempio – sono il primo dono, in materia di chiacchiera, che gli adulti ci fanno, impariamo la loro divertente prosetta prima delle parolacce (che sono il secondo dono). Li impariamo a memoria senza accorgercene che li stiamo imparando, raramente li scomponiamo nelle loro singole parole dagli slanci favolistici (ma la nostra infanzia è così cinica), hanno il potere, pur essendo pronunciati, pur essendo, quindi, sonori, di collocarsi in silenzio nella nostra memoria, hanno questo potere, ne hanno molti, sono molto potenti i luoghi comuni, questa ordinaria arte appunto locale. Le parole che li compongono stringono patti di eterna coesione.

Nella galleria espositiva del discorso sono i quadri intoccabili, indiscutibili, sono vignette che sospendono la critica a ganci prosopopeici, irridendola. Sono affreschi spicci e rapidi su mura incrollabili. Davvero, se solo presumi di poterli mettere in discussione (ma non lo fai, ti fermi in tempo; hanno anche questo generoso potere: avvisarti) ti senti subito calato dall’alto della tua presunzione dritto nei panni del fesso, panni che ti starebbero a pennello (l’ovvio è il loro pane casereccio, il pane del luogo). Sono anche detestabili, sì, ma chi li detesta è una figura al loro servizio, cooptata (detestare i luoghi comuni è cadere in un luogo comune, che è ovviamente un luogo pieno di trappole insidiose). Ma se li sai risvegliare, ah, se li sai scatenare sei alla testa di una rivolta popolare. Insomma, l’ambizione dello scrivere è questa: crearne di nuovi, forze fresche di luoghi comuni. L’ambizione del romanzo: esserlo, essere un luogo comune, una sorridente località di amena lettura, un sorriso dal grande appetito.

Le descrizioni, le panoramiche, le vedute dipinte in natura, le linee urbane ritagliate sotto il cielo, le tirate paesaggistiche anch’esse sì furono, sono, assai generose con me, clementi direi. Mi presero da parte, ricordo, un giorno in cui la pagina scorreva larga e liscia.

Come si dice? Vedevo srotolarsi l’acciaio fluviale o, a seconda dell’ora, la malleabile lamina d’oro, la semovente lastra bronzina, lo specchio scuro d’ossidiana galleggiante con dentro la luna frantumata e fremente: così si dice. Mi presero da parte e mi dissero «Ragazzo… », per le descrizioni sono sempre un ragazzo, esse sono più grandi di me, più vaste, più estese, anche quando sono punte di spillo perché anche le stelle sono punte di spillo…

«Ragazzo, tu continui a evitarci, lo sappiamo e si vede, e dal tuo punto di vista hai ragione ma – e non puoi dire il contrario perché anche questo sappiamo – il tuo sguardo qualche volta ci sfiora per solleticarci come al solito tuo con oblique intenzioni sperimentali e beffarde. Ma noi abbiamo più esperienza di te, e tu non mostri nessun interesse per il nostro artigianato, per i richiami che noi disegniamo con tanta cura e dedizione coloristica. Poi, a un certo punto ecco che a una svolta della vita (la vita è metafora di mappe stradali) qualche nostra forma diventa oggetto del tuo desiderio.

Stiamo parlando – parole tue – di anse, seni, golfi, foci, colli e colline, cosce montane, il ginocchio sollevato che rende cuspidale, dolomitica, la gamba, lo stinco scosceso, l’altra gamba più in basso, collinare e distesa e, in mezzo, la valle, la valle, la valle sazia di recente amor fatto. Cos’è? Ci prendi in giro? Ci eviti e però ci usi per pittare visioni corporali? Ci fai fare anticamera, ragazzo, te ne rendi conto? Cosa farfugli? Che la descrizione è nostalgia del corpo, che il paesaggio è corpo in mancanza… ma checcaz… chi te le ha messe in testa queste cose, chi le ha scritte? Non tu certamente, non è farina, non ti ci vediamo che perdi tempo a pensare. Dobbiamo forse arrotolare come fondali di tela le nostre vedute? Dobbiamo mettercele sotto braccio e aspettare che tu ci dica dove, oltre quale bordo di rigo lasciarle cadere, in quale spogliatoio riporle, dal quale venir fuori nude e crude, noi, visioni carnali? È così che ci vuoi? Ragazzo, ecco spiegato perché tu non torni in certi luoghi nei quali hai fatto il bello e il brutto tempo più del clima. Perché era bello il tempo in cui non ti chiedevi se fosse bello il posto. È così, non è vero?»

E io a loro: «Non mi occupavo del posto, è vero. Ecco il punto: il vero. Cosa c’entra il bello? Il bello mica è vero, è attenuante, è quella circostanza attenuante che comporta una diminuzione della pena di vivere. È una sosta a bocca aperta, è svenevolezza umana, magari anche svenimento. Io andavo spesso a piedi. Sveglio e vigile, voglio dire, alleprato, ero un lepre, saltellavo. Che volete che vi dica? Ogni posto era un luogo leggero, fatto di quinte di vapore e di fumo dipinti, di nulla con facciata, di niente con portone e finestre, tu ti sposti e ti porti appresso il luogo, è come strappare manifesti camminando – anche questa è un’attività, Mimmo Rotella (è un nome ovviamente inventato) ci fece una fortuna a strappar manifesti – e ogni luogo che percorri si aggiunge ai precedenti come se, vedendoti passare, i posti capissero che con te c’è da spassarsela, che qualcosa di piacevole è nell’aria, e la cosa piacevole è proprio questa: sei tu che vai a compiere qualcosa, una pescata, un’intimità, una giocata qualsiasi sia, un affare, soprattutto se fatto con le parole.

Le parole, se t’amano, amano darti una mano a fare affari. Le scale che hai disceso ti seguono come fisarmoniche, ti segue il portone, ti segue l’archetto che diventa una freccia scoccata, ti segue il selciato disselciandosi, i due lati della strada sono ali che si elevano e volano, e tu puoi ragionevolmente sentirti Pegaso, insomma tutto è con te, ti porti appresso anche il mare se ci passi accanto (salta fuori di sé come una rondinella di mare e ti segue planando), i monumenti, le chiese, i mausolei, tutto, i rosoni rotolano come libere ruote di carretti, guglie e pinnacoli sono giavellotti e si lanciano… e non facciamola troppo lunga la scia di tutto quello che porti con te, e che con te raggiunge l’ultima meta per il momento, la quale ultima meta si mette a ronzare e ti gira intorno. Tutto qua, e questo è tutto.

Cosa mi significa ammirare il luogo? Il luogo è tutt’uno con me, e insieme stiamo soltanto facendo qualcosa, magari i nostri comodi (devo ammirarmi per questo?). Quando davvero hai qualcosa da fare e la fai, non la fai tanto lunga col paesaggio, anche perché il paesaggio sei tu. Tutto è panorama in senso lato, anche, quindi, in senso stretto: primissimi piani, dettagli, particolari, una bocca.

Per capirci, la bellezza naturale (che, insisto, non esiste in natura, anche perché la natura non è umana, quindi non è leziosa) non l’ho mai notata, ci stavo dentro, ne facevo parte, in qualche modo la impallavo, mi mettevo di mezzo tra essa e l’occhiata turistica. La bellezza artificiale nemmeno esiste anch’essa, è attribuzione: monumenti, statue, chiese, case, arazzi, affreschi, pitture nei vari formati, questa bellezza è commercio, investimento, bellezza del denaro, soldi ben spesi, oppure roba orrenda, istallazioni di stampelle, oggetti sfasciati, inutili colate di materia grigia, quel vecchiume da vetrina elettrodomestica che sono gli schermi accesi, mostre di stracci lerci del meccanico, soldi buttati come scarichi diabolici nel vento.»

E dopo questa bella chiacchierata, ora mi pongo davanti al romanzo come davanti al tramonto, che è un banco di macelleria grondante. Le descrizioni giocano a nascondino schiamazzando e radendo in corsa il suolo come rondini. Tra poco mi faranno l’occhietto quei luoghi comuni che sono le stelle.

(18 Continua)

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