Ritirando la proposta sulla riduzione dei pesticidi la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen potrebbe essere riuscita a disinnescare la miccia della sollevazione dei contadini dell’Unione ma la posta in gioco è ben più ampia e va oltre la protesta dei trattori, come conferma anche la notizia di venerdì scorso sul fronte che si sta costituendo nel Consiglio europeo per bocciare la direttiva Ue sulle filiere: principio ineccepibile, applicazione normativa insostenibile. A questo punto il nodo sembra riguardare due fattori chiave della politica europea: il modello economico e il modello procedurale. Ossia, in parole povere, la definizione degli obiettivi in cui si devono concretizzare i principi a cui si ispira la politica europea e le architetture normative che devono sostenerla e attuarla.
Quanto è accaduto nei giorni scorsi non fa che ripercorrere quanto sta accadendo in altri settori come la mobilità, con le norme e le tempistiche contestate sull’auto elettrica, e la logistica, con il nuovo regolamento sugli imballaggi che rischia di stravolgere una fetta importante di quanto è stato finora fatto sul trattamento rifiuti. Stavolta l’eco è stata maggiore perché non è coinvolto solo un singolo comparto, ma un intero settore economico, quello agricolo, che da anni soffre di un malessere tanto diffuso quanto omogeneo da un angolo all’altro del mercato europeo.
Nei primi due casi hanno protestato singoli governi e settori industriali. Qui sono scesi in strada direttamente i contadini. Anche se il termine è sbagliato, perché fa pensare a una coda residuale della vecchia agricoltura del secolo scorso. Ma non è così. Si tratta di imprese agricole a tutti gli effetti. Piccole, sì, in diminuzione costante, ma non perché stanno sparendo bensì perché lentamente si stanno consolidando.
Negli ultimi dieci anni la superficie agricola coltivata totale dei Paesi Ue non è diminuita, anzi qua e là si assiste a un certo recupero. Sono invece diminuite le aziende. Erano quindici milioni attorno al 2000, oggi sono poco più di nove milioni. In Italia il fenomeno è ancora più evidente: seguendo le evoluzioni dei censimenti agricoli dell’Istat, al 2021 c’erano poco più di 1,1 milioni di aziende agricole in Italia. Erano 2,4 milioni nel 2010, quindi si sono dimezzate negli ultimi dieci anni. Andando più indietro, agli anni Ottanta, sono sparite due aziende agricole su tre. In compenso è aumentata la dimensione media.
Quindi è un settore vitale, la base del nostro Made in Italy alimentare. Ma economicamente parlando è un settore abbandonato a sé stesso. Sussidiato sì dalla Politica agricola comune, ma secondo criteri vecchi e che non incentivano il cambiamento e lo sviluppo. E se le grandi aziende agricole, da Bonifiche Ferraresi alla Maccarese dei Benetton hanno risorse da investire su digitalizzazione, agricoltura 4.0 e soprattutto formazione di personale, il resto fa molta più fatica. Stretta nella morsa della grande distribuzione da una parte, che ha scaricato molto sui produttori la stretta dei margini indotta dall’inflazione, e dall’industria della trasformazione alimentare dall’altra. E qui si arriva all’Europa e al pasticcio ammannito dal governo dell’Unione.
A seguire le cronache delle proteste l’impressione che se ne ricava è che ci sia una rivolta in atto contro le politiche agricole Ue e il Green Deal varato dalla commissione von der Leyen. Ma in effetti non è proprio così che stanno le cose. Perché del Green Deal europeo di concretamente varato c’è ben poco. Certo ci sono progetti e normative in via di approvazione, ma di già fissato per sempre c’è quasi nulla. Specie per le tempistiche che sono il tema più spinoso. Come per i motori elettrici delle auto e la scelta di puntare tutto sulle batterie tralasciando i combustibili non derivati da fonti fossili ma da sintesi chimica o dall’economia circolare. O come per la guerra alle plastiche monouso che penalizza anche il settore agricolo perché rende difficoltoso il confezionamento del prodotto fresco da vendere nei supermercati (buste per frutta e verdura, vaschette per le carni e i formaggi).
Fino a ieri la punta più avanzata del Green Deal agricolo era costituita dalle norme sul dimezzamento dei pesticidi: ma la proposta della Commissione era già stata bocciata dal Parlamento europeo e aveva sollevato opposizioni da ogni parte con una trasversalità senza pari. C’è perfino stato uno studio del 2021 del Joint Research Center della Commissione Ue, che, pur con mille cautele linguistiche, arriva alla conclusione che le misure in via di adozione per il Green Deal avrebbero prodotto alla fine una riduzione della produzione agricola europea e un aumento delle importazioni. Tanto che, quanto alla riduzione di gas serra, il settanta per cento delle minori emissioni realizzate in Europa sarebbe stato compensato dall’aumento di quelle prodotte nel resto del mondo. Di qui, probabilmente, anche la prima correzione introdotta dalla Commissione di escludere dal calcolo delle emissioni da ridurre quelle del settore agricolo, che per inciso rappresentano appena il nove per cento del totale.
Il ritiro della proposta annunciata da von der Leyen è poco più della constatazione di un dato di fatto. Era in sostanza una proposta scritta molto male. Intanto perché è stata adottata una classificazione aleatoria: per esempio veniva equiparato ai diserbanti più velenosi l’acido acetico, che è una sostanza naturale. E poi perché l’uso dei pesticidi veniva ridotto in base a un calcolo solo quantitativo con il risultato che si finiva per colpire più pesantemente quelli meno dannosi, usati in grandi quantità, e relativamente meno le sostanze più tossiche. Per dire: con un chilo di acido acetico si trattano meno di dieci metri quadri di un giardino, con un chilo di florasulame, potentissimo diserbante chimico si fanno centosessanta ettari, 1,6 milioni di metri quadrati, circa venti volte la dimensione media di un’azienda agricola.
«Ma soprattutto si è persa l’opportunità di facilitare l’accesso ad alternative per il controllo biologico. Non sono stati prodotti meccanismi e iter in grado di dare agli agricoltori soluzioni alternative – riconosce Eduardo Cuoco, direttore di Ifoam Organics Europe, l’associazione europea di rappresentanza della filiera agricola biologica europea – Noi come settore bio non saremmo ovviamente stati toccati dal taglio all’uso delle sostanze chimiche di sintesi, visto che non ne usiamo, ma va riconosciuto che la normativa non era disegnata completamente in maniera soddisfacente. Riguardo il controllo biologico, ad esempio l’immissione sul mercato di nuove alternative ha un sistema di registrazione molto rigido e pensato per molecole chimiche. Se per paradosso volessimo usare l’innocuo succo di limone in un trattamento fitosanitario, non potremmo farlo perché questa sostanza non è riconosciuta e inclusa nella relativa normativa. E l’ter per inserirla nell’elenco è una battaglia impossibile. Ci vogliono circa dieci anni per arrivare all’approvazione finale da parte dell’Agenzia chimica Europea e tutti i costi di produzione di studi e dossier sono a carico del richiedente. Con il risultato che gran parte dell’innovazione in termini di trattamenti resta tagliata fuori, se non legata a forti interessi industriali, quasi nulli nel caso di sostanze di base di origine naturale e per tanto non brevettabili».
Al momento la politica agricola Ue è di fatto solo la Pac, la voce a cui va un terzo del bilancio europeo. Ma che non funziona. La Pac sono sovvenzioni erogate in termini di superficie coltivata, con pochissimi correttivi: per esempio se le coltivazioni sono biologiche il bonus di premio è ridottissimo. E poi è un mix di norme europee e nazionali. Perché di fatto sono i singoli governi che decidono alla fine come distribuire le sovvenzioni. Quindi, quello che è il principale strumento dell’Unione per dare un indirizzo all’economia agricola è ancora tarato su parametri del secolo scorso. Mentre invece la vera Europa verde e sostenibile dovrebbe proprio cominciare da qui.
«C’è la necessità urgente di riformare la Pac per affrontare le sfide ambientali, sociali ed economiche che ci troviamo davanti. Non si tratta solo di promuovere l’agricoltura biologica, ma di rivedere completamente il sistema degli aiuti, per fare in modo che sostenga pratiche agricole realmente sostenibili. La Pac deve evolversi per incentivare un ampio spettro di pratiche agroecologiche e biologiche, riconoscendo e remunerando gli agricoltori per i beni pubblici che forniscono, come la biodiversità, la protezione del suolo e delle acque, la sequestrazione del carbonio e la resilienza agli shock climatici. È fondamentale che i futuri pagamenti della Pac siano legati non solo alle pratiche individuali, ma a un vero e proprio cambiamento sistemico nell’agricoltura. Solo così potremo garantire la sicurezza alimentare, la sostenibilità e il benessere delle generazioni future».
Si tratta quindi di introdurre un sistema che distribuisca risorse con obiettivi precisi e a fronte di impegni altrettanto precisi da parte delle imprese agricole, creando così fonti di reddito per le imprese a fronte di servizi resi e senza sovvenzionare i prezzi. Oggi per ottenere i sussidi della Pac basta avere una superficie coltivata. Se bene, male con qualità o meno non importa: più ettari più soldi. E altre realtà agricole invece non prendono un euro. Come le cooperative sociali. La Agrimi Bio di Basiano, Milano, 2,5 ettari in un angolo di pianura padana coltivati a ortofrutta: duecento mila euro di fatturato produttivo utilizzando, dopo averle formate, persone svantaggiate, ex tossici o ex detenuti. Recupero di persone e recupero di territorio: una produzione di alto valore sociale, tanto che viene sostenuta da Fondazione Cariplo, ma nessun diritto di accedere ai fondi Pac. Quel terzo di budget europeo può essere usato molto meglio.