Ogni elezione è un caso a sé, tutte importanti, poche quelle decisive. Le elezioni europee del prossimo giugno potrebbero favorire un irrituale, salvifico gesto di ribellione, dunque segnare un punto di svolta nel panorama continentale. Elezioni, sulla carta, decisive. Decisive non nel senso che il risultato possa generare una maggioranza di destra a Strasburgo. Decisive per gli obiettivi che il nuovo Parlamento europeo e la nuova Commissione avrebbero il dovere di porsi tanto più alla luce dei sommovimenti geopolitici in corso. La campagna elettorale inizia con un enorme focolaio di guerra acceso nell’Europa orientale e con un conflitto drammatico nel cuore del Mediterraneo, a novembre si terranno le elezioni presidenziali negli Stati Uniti, voteranno anche India, Brasile, Iran, Indonesia, una ventina di paesi africani e la Russia di Putin, insomma la metà della popolazione mondiale. E si voterà in una geografia in via di definizione, con potenze regionali quali la Turchia e l’India che stanno ridefinendo il loro ruolo, con la sfida tra Cina e Stati Uniti che non si è affatto fermata.
I cambiamenti più significativi avvengono nei frangenti di crisi, proprio la fase in cui gli stati e le persone percepiscono che gli interessi vitali sono a rischio. Si lascia il vecchio ordine per approdare a un ordine nuovo e le classi più deboli cercano di raggiungere un livello più alto di benessere. Le vecchie classi dirigenti, travolte dal rancore e dalla paura, puntano a soluzioni autoritarie. Ascolta le parole di Francis Fukuyama: quando al posto di un sistema morale stabile sopravviene un sistema con valori in competizione, la maggioranza dei cittadini non gioisce perché si aprono spazi di libertà, ne è invece atterrita, prova insicurezza. In un tempo di rapidi mutamenti, cerca allora rifugio nell’identità di gruppo. Per questo nazionalismo e religione, nelle fasi di passaggio più radicali, sono ritenute un riparo sicuro.
La sfida tra Cina e Stati Uniti si innesta in questo quadro. Per la prima volta, la sfida tra due nazioni e non tra due imperi. I cinesi non hanno la mentalità imperiale anglosassone ma hanno interesse a cambiare l’ordine mondiale a cominciare dal sistema monetario guidato dal dollaro. C’è dell’altro. I cinesi non credono che l’Unione Europea abbia un futuro come organismo unico decisionale. La sfida a due somiglia allo scontro tra Inghilterra declinante e Germania in crescita alla fine dell’Ottocento, ben diversa dalla sfida Usa/Urss della seconda metà del Novecento per la debolezza economica sovietica. Non è cosa di poco conto cui si somma una seconda considerazione. Gli Stati- civiltà (Cina, Russia) propongono valori universali a differenza degli Stati-nazione, dunque hanno una loro attrazione.
E veniamo all’Europa. La crisi economica favorì negli anni Trenta l’ascesa di movimenti fascisti, tuttavia Francia e Inghilterra mantennero in vita forti democrazie. Oggi i populisti nazionalisti si affermano anche in paesi a forte sviluppo economico perché da un lato c’è la reazione del ceto medio alla povertà crescente che lo travolge, dall’altro si manifesta una volontà di potenza generata dalla carenza di una leadership condivisa. Il problema è davanti agli occhi del mondo. Si chiama Unione Europea. La domanda che dovremmo porci in queste elezioni è se l’Unione debba rimanere quella che è o debba, al contrario, evolversi in Stati Uniti d’Europa per sostenere la sfida planetaria. Chi scrive auspica venga battuta la seconda strada.
Gli accordi di Maastricht vennero predisposti prima del crollo dell’impero sovietico. Come cambia la geografia dell’organizzazione del potere, così dovrebbe essere messo in campo un progetto europeo innovativo: un unico esercito, una sola politica estera, lo stesso orizzonte economico. Salvo restare un enorme mercato senza ambizioni politiche. Hic Rhodus, hic salta. O questa Europa o una lenta agonia.