Accoccolato a fissare il braciere, Antonio non mostrava alcuna voglia di spostarsi dal camino.
“Cosa troverà di interessante mio figlio in un fuoco spento?” s’interrogò il padre tra sé e sé.
«Cielo perfetto per innaffiare» si disse invece mentre, affacciandosi in giardino, lanciava uno sguardo alle prime stelle che brillavano timide. Il solstizio di giugno era trascorso, la Luna cresceva nel segno del Cancro e le piante bevevano l’acqua come spugne, facendone scorta contro il caldo in arrivo. L’uomo si diresse verso la pompa, ma l’aria era più fresca di quanto aveva immaginato e dovette tornare indietro a coprirsi con una maglia dalle maniche più lunghe. Una polo rossa, di quelle che piacevano a lui.
«Antonio, perché non vieni ad aiutarmi? Un tempo ti piaceva giocare fuori con l’acqua, ricordi?» chiese, indicando il mandarino sotto il quale la piscinetta gonfiabile era stata confinata a prendere polvere. Il padre di Antonio ormai la usava per le foglie secche, quando ripuliva le piante o gli alberi dalle escrescenze morte.
Pensò: “Peccato che i figli crescano in fretta”. Fino all’estate precedente il suo era un bambino allegro e giocoso, ma nell’inverno quella creaturina sembrava essersene andata in letargo, per lasciar nascere al suo posto un piccolo uomo solitario. Questo fu ciò che pensò, ma non lo disse. Non disse niente, aspettò che la sua richiesta svaporasse nell’aria.
«Vai da solo. Non ho voglia di uscire in giardino» sussurrò Antonio, alzando le spalle.
Il ventuno giugno, la sera del solstizio, la madre era partita. Questa volta non aveva detto quanto sarebbe stata via. Dal giorno dopo, starsene imbambolato davanti al camino spento era diventata l’attività preferita di Antonio.
Il padre si arrotolò le maniche e si chiuse alle spalle la porta-finestra. Anche per lui la mancanza di Alice era difficile, ma se suo figlio non aveva voglia di passare il tempo insieme nemmeno quando restavano da soli, allora peggio per lui. Di solito era la moglie a mediare tra loro, si intristì.
Rimasto solo, Antonio tirò il fiato e tese le orecchie: i passi sui ciottoli del sentiero, la pompa tirata su da mani robuste, lo zampillio dell’acqua che bagnava e nutriva le piante su cui cadeva a ricasco. Appena fu certo che il padre fosse al lavoro, tirò fuori dalla tasca un biglietto stropicciato e lo srotolò per rileggerselo in segreto.
Tesoro mio,
ti starai chiedendo come mai sono ripartita. E so che ti manco, come tu manchi a me, ma sono stata costretta a scappare: devo proteggere la nostra Natura dall’attacco di uomini cattivi. Ormai sai cosa comporta la mia missione. Volpi, lepri, gufi, falene, ghiri del bosco di Bottanuova rischiano di morire perché qualcuno vuole estirpare tutto per costruire i pilastri di un ponte autostradale brutto e pericoloso, che tra l’altro non serve a nessuno. Che persona sarei a lasciarti in eredità un mondo violento e brutale, senza nemmeno cercare di correggerlo?
La tua mamma, Antonio, non è perfetta. So che potresti criticarmi, ma io proprio non riesco a starmene a guardare mentre gli incivili distruggono la Terra. Pensa alla storia che ti ho raccontato: Prometeo, il dio che ha tradito gli altri dèi per portare il fuoco agli uomini.
Anche se ti insegneranno che tradire è sempre sbagliato, non è vero. A volte è utile, anzi necessario.
Ho scoperto che il progetto del ponte ha una serie di intoppi, quindi è quasi certo che non potrà essere portato a termine. Però non basta sapere che domani interromperanno i lavori, bisogna agire oggi, impedire l’apertura dei cantieri che distruggerebbero muschi, licheni e radici.
Sì, combatto dalla parte della Natura e tradisco gli esseri umani. Tuo padre è arrabbiato con me perché pensa che stia tradendo anche lui, e forse è vero: la Natura è un amore più grande di tutto e tutti. Quasi tutti.
Niente sarà mai più grande dell’amore che provo per te.
Ti bacio, so che un giorno capirai,
la tua mamma-Prometeo
Un sibilo venne dall’interno della cappa. Antonio sussultò, la notte prima aveva sognato proprio quel momento! Non nel senso che ci aveva fantasticato su, no, era stato proprio un sogno vero, di notte nel suo letto: Antonio stava uscendo in giardino con il padre per innaffiare le piante, quando aveva sentito un rumore provenire dalla cappa. Lì per lì era passato oltre, facendo finta di niente. Poi però la canottiera gli era rimasta impigliata in qualcosa, anche se non c’era niente vicino a lui. Di nuovo aveva provato a ignorare quel segnale, ma una mano allora lo aveva toccato per trattenerlo e gli era sembrato di sentire un sussurro: “Aspettami!”.
Al contrario degli adulti, Antonio non credeva alla differenza tra sogni e realtà. Quindi, al risveglio, senza dire niente a suo padre si era piazzato davanti al camino ad aspettare, sicuro che qualcosa sarebbe successo. Del resto, quello non era un camino come gli altri. Era un camino glorioso, con una lunga storia. Il trisnonno di Antonio lo aveva ricevuto in dono da una delle famiglie nobili della città, quando in Italia c’era ancora la monarchia. Il giorno in cui quella famiglia lasciò la città di Panormo per trasferirsi in Spagna, regalò i mobili più belli e ingombranti agli amici cari. Il trisnonno, giardiniere e confidente del patriarca, aveva scelto il camino, che aveva poi lasciato al figlio e così via fino al padre di Antonio, che tutto orgoglioso l’aveva mostrato alla moglie quando erano andati a vivere nella casa con il giardino.
Alice lo chiamava “il camino del re”.
“Siamo nati per marciare sulla testa dei sovrani” ripeteva ogni volta che decideva di utilizzarlo per qualcosa di diverso. Per tutto, tranne che per accendere il fuoco. Era stato di volta in volta dimora per il presepe, dispensa, cantina per le bottiglie di vino… Infine la madre di Antonio aveva capito cos’era: una libreria. Intorno alla cappa aveva allineato i suoi saggi del cuore: La rivoluzione verde è per tutti; Donne-albero di ieri e di oggi; Di cosa parliamo quando parliamo di rivolta ecologica…
“Siamo nati per…” aveva esclamato trionfante Alice quella volta.
“… Marciare sulla testa dei sovrani” aveva finito la frase Antonio, mentre metteva a posto Così parlò l’ortensia. Adesso qualcosa strisciava giù dal camino per arrivare fino a lui.
Antonio trattenne il respiro, elettrizzato.
Posò lo sguardo sui libri. “Natura” era la parola che la madre leggeva e scriveva più spesso, con la lettera maiuscola, come se fosse una dea. Anche ad Antonio piaceva la natura, però minuscola: mandarini, oleandri, camelie. Non era forse quella del giardino anch’essa natura?
Antonio aveva sempre vissuto lì, nella casa un po’ isolata, a metà strada tra il centro città, dove il mare non si intuiva e nemmeno si vedeva, e la spiaggia di Campacavallo, da cui arrivava di tanto in tanto l’odore di salsedine, portato qua e là dallo scirocco. I suoi compagni di classe abitavano invece in appartamenti che affacciavano sui vicoli di Panormo, tra saracinesche mezze abbassate, officine rumorose e i tavolini dei bar sui marciapiedi. Solo quando andava a trovarli, Antonio capiva che la parola “casa” aveva per loro un significato del tutto diverso.
Per lui, casa era un posto isolato, un mistero circondato da un giardino, protetto da un muro alto che scoraggiava gli umani ma non i gatti randagi, che ci saltavano volentieri dentro. Mentre le persiane dell’unico balcone erano sempre chiuse, per impedire ai rami dell’oleandro rosa di entrare dentro la sua stanza. Erano un po’ invadenti, gli oleandri, un po’ impiccioni. Non emanavano la solidità degli alberi di agrumi, sempre silenziosi e indaffarati nei fatti loro.
Tratto da “Scintilla” (Mondadori), di Nadia Terranova, pp. 224, 16,15€
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