Alla letteraNon esiste uno standard mondiale per diagnosticare la dislessia

Per rilevare i disturbi specifici dell’apprendimento, oltre alla età, ci sono anche differenti modalità di test, protocolli tra paese e paese. Ma la tecnologia potrebbe venire in aiuto, grazie ai videogiochi

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Mi capita sempre più frequentemente di incontrare persone che mi segnalano come, nel loro ambito familiare, vi siano giovani che soffrono di dislessia, un disturbo cognitivo di origine neurobiologica che rende difficile, o più difficile della media, leggere e scrivere le parole. Intendiamoci subito: la dislessia non ha nulla a che fare con l’intelligenza. Richard Branson (fondatore di Virgin), attori e attrici come Jennifer Ariston, Keanu Reeves e Tom Cruise, il regista Steven Spielberg, l’imprenditore Tommy Hilfiger, sono solo alcuni tra i personaggi famosi ai quali in età non più scolare è stata diagnosticata la dislessia. Richard Ford, ottanta anni, dislessico, è un romanziere americano di origini irlandesi che sino a diciannove anni non era riuscito a finire un libro. Nel 1996 vinse il premio Pulitzer con il suo romanzo “Independence Day”.

Il fenomeno dislessia è recente semplicemente perché, solo trenta anni fa, in diversi paesi non veniva né diagnosticata, né monitorata. Anche oggi, a livello globale, è difficile da rappresentare. Le statistiche al momento non convincono: l’Associazione Europea per la Dislessia (EDA) stima tra il cinque per cento e il dodici per cento la popolazione europea dislessica; la Commissione europea, nel suo rapporto pubblicato nel 2013, afferma che lo è solo il 3,3 per cento della popolazione. Prendiamo il caso della Germania: le stime più basse (in Sassonia) collocano il numero dei dislessici all’1,3 per cento della popolazione. Altri dati danno il numero di dislessici in Germania dal 2,2 per cento al 2,6 per cento, dall’1,9 per cento al cinque per cento. Berlino colloca la cifra al 7,2 per cento. Un rapporto afferma che, a seconda dei criteri utilizzati per misurare la dislessia, le cifre variano dal 7,1 per cento al 15,6 per cento. Stesse oscillazioni riguardano anche altri paesi quali la Norvegia, la Svezia, Danimarca, l’Islanda, la Lettonia, la Romania.

Ma perché così tante oscillazioni e differenze? Il motivo è semplice: non esiste uno standard per misurare la dislessia, ogni statistica, quindi, è non comparabile e non del tutto significativa. Negli Stati Uniti, il National Institutes of Health (Nih) ha dimostrato che la dislessia colpisce dal cinque per cento al dieci per cento della popolazione, con una stima massima che arriva al diciassette per cento. Il Dipartimento della Salute e dei Servizi Umani degli Stati Uniti (Hhs) stima la cifra al quindici per cento, mentre l’International Dyslexia Association (Ida) afferma che siamo circa al 13-14% della “popolazione scolastica”. Con queste premesse, secondo le statistiche (da prendere quindi con le pinze), le stime mondiali della dislessia vanno dallo 0,05 per cento della Turchia al 33,33 per cento della Nigeria. In Europa andiamo dal tre per cento della Svezia, al quasi ventiquattro per cento dell’Islanda, con una media che si colloca intorno al cinque per cento.

Due ulteriori considerazioni che ci fanno meglio capire il perché il quadro statistico generale rimanga vago e non chiaro. Il primo riguarda l’età dei soggetti ai quali viene offerto il test. In Spagna, ad esempio, la dislessia viene monitorata già all’età di tre, quattro anni mentre in Norvegia mediamente intorno ai dieci anni. La Svezia individua la dislessia sorprendentemente tardi, a un’età media di tredici anni. In Inghilterra e nel Galles, infine, la dislessia viene monitorata dai tre ai cinque anni.

Come si evince, non esiste oggi una standardizzazione su quando la dislessia debba (o possa) essere rilevata. Oltre alla età vi sono anche differenti modalità di test (protocolli) tra paese e paese. La Spagna utilizza un protocollo chiamato Prodislex (“Protocolo de detección y actuación en dislexia”); la Croazia utilizza PredČiP (una valutazione delle competenze di lettura e scrittura); il Regno Unito utilizza la British Ability Scales di GL; la Norvegia utilizza un test nazionale chiamato Logos, così come ogni Stato degli Stati Uniti ha un proprio approccio e una legge di riferimento.

Non solo ognuno va per la sua strada sul come e sul quando, ma vi sono differenti prassi anche sul “chi” dovrebbe certificarla: genitori e insegnanti, insegnanti di educazione speciale, screening automatici, psicopedagogisti, psicologi, logopedisti, consulenti. In Francia, la dislessia, essendo considerata una condizione medica, deve essere accompagnata da un certificato medico per essere conteggiata.

In questo contesto a dir poco polifonico i bambini potrebbero ricevere una diagnosi errata, o perdere una diagnosi corretta, a causa della mancanza di una comprensione comune su cosa sia la dislessia, come testarla e quali strumenti utilizzare nella procedura di test e a quale età.

La tecnologia sta venendo in aiuto: in Italia, per esempio, un importante strumento di screening in fase di sperimentazione è un videogioco, pensato per l’identificazione precoce dei soggetti a rischio di Dsa. Sulla stessa linea, una sostanziosa ricerca ancora italiana che ha coinvolto centoventi bambini affetti da dislessia, pubblicata sulla rivista “Npj Science of Learning” del gruppo Nature, è stata condotta da un team internazionale di ricercatori coordinati dalle Università di Bergamo e Padova. I ricercatori hanno dimostrato come l’attivazione neurale, fisiologica e biochimica indotta dal gioco, (con circa venti sessioni), abbia positivamente stimolato l’attenzione, la regolazione delle emozioni, il riconoscimento degli oggetti visivi e lo sviluppo del linguaggio dei vari bambini.

Negli Stati Uniti si sta sperimentando (pare con promettenti risultati) l’intelligenza artificiale generativa per creare videogiochi personalizzati in grado di identificare la natura del segnale alterato e – tramite la costruzione dinamica di nuovi giochi guidata dall’AI – addestrare il cervello di ogni soggetto su come aggirarli, come se si trattasse di un problema computazionale. La sfida è fare tutto questo assicurando che i giochi (della durata di uno-tre minuti) rimangano attraenti per i soggetti coinvolti.

A Henry Winkler, famosissimo “Fonzie” in Happy Days che la mia generazione ben conosce, fu diagnosticata la dislessia solo a trentuno anni. Da quel momento non ha mai smesso (oggi settantanove anni) di aiutare chi lottava con la stessa difficoltà di apprendimento. A questo proposito nel 2014 scrisse un libro insieme alla giornalista Lin Oliver dal titolo “Here’s Hank”, su un amabile bambino di seconda elementare che, come Winkler, lotta con la lettura e la matematica (discalculia). Una sua frase memorabile ben riassume il quadro generale, quando parliamo di dislessia: «Quanto sia difficile per te imparare non ha nulla a che fare con il destino che incontrerai». Alla faccia degli standard.

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