«Oggi il progresso del mondo è possibile solo attraverso la ricerca di un consenso umano universale, mentre avanziamo verso un nuovo ordine mondiale […]. Un ordine pacifico […] capace di trasformare radicalmente l’identità politica e intellettuale del nostro pianeta». Il 7 dicembre 1988, davanti all’assemblea generale dell’ONU, il presidente sovietico Michail Gorbačëv inaugurava con queste parole una formula che avrebbe fatto fortuna negli anni e nei decenni successivi: «nuovo ordine mondiale».
A dire il vero, si trattava più del rispolvero di un concetto apparso fin dall’epoca di Woodrow Wilson che di una trovata personale di Gorbačëv. Non si può però mancare di constatare che, lungo tutti i decenni del secondo dopoguerra, nessun leader politico aveva avvertito la necessità di menzionare l’ordine mondiale, tantomeno per evocarne uno «nuovo»; e che, invece, da allora in poi quella formula ritornò con crescente frequenza. Quasi due anni dopo il discorso di Gorbačëv, il suo dirimpettaio, il presidente americano George H.W. Bush, ne fece un lancio in grande stile, annoverando tra gli obiettivi dell’incipiente guerra contro l’Iraq proprio la creazione di un «nuovo ordine mondiale», «un’era in cui le nazioni del mondo, a est e a ovest, a nord e a sud, possano prosperare e vivere in armonia».
L’uso di quella formula implicava due cose: la prima, che era esistito, in precedenza, un «vecchio» ordine, tanto ovvio da non meritare neppure una menzione; la seconda, che quell’ordine stava scomparendo e che quindi occorreva costruirne uno «nuovo». In effetti, tra la fine degli anni 1980 e l’inizio degli anni 1990, l’assetto internazionale scaturito dalla Seconda guerra mondiale – noto come «ordine di Yalta» o «ordine bipolare» – si stava rapidamente sgretolando; e siccome quell’ordine si era essenzialmente basato sulla collaborazione/competizione tra Stati Uniti e Unione Sovietica, non è un caso che i primi ad accorgersi degli scricchiolii siano stati i presidenti di quelle che, nel gergo politico di allora, venivano chiamate «le due superpotenze».
Come vedremo, quell’assetto non è ancora completamente tramontato e, soprattutto, nessun «nuovo» ordine è emerso, nonostante gli auspici e le speranze degli uni e degli altri. Anzi, è proprio a partire da quegli anni cruciali che il mondo è diventato sempre più disordinato, anche se molti, inebriati dalla retorica allora dominante della «fine della storia» e del «mondo unipolare», hanno cominciato ad accorgersene con crescente apprensione solo in questo secolo. Si può sostenere che il richiamo a un «nuovo ordine mondiale» si diffonda in modo direttamente proporzionale al dispiegarsi di un nuovo disordine internazionale, quasi una evocazione apotropaica volta a sedarne, almeno psicologicamente, gli effetti ansiogeni. Nel 2017, anche il presidente cinese Xi Jinping si è unito al coro, annunciando che il suo paese era pronto a «guidare la comunità internazionale a costruire insieme un nuovo ordine mondiale più giusto e ragionevole». Persino il presidente russo Vladimir Putin ha giustificato la guerra scatenata contro l’Ucraina nel febbraio 2022 con la necessità di dar vita a un «nuovo ordine mondiale basato sul diritto, libero, autentico ed equo».
Insomma, sono stati in tanti, in questi ultimi decenni, a voler offrire la prospettiva di un «nuovo ordine mondiale», abbinandole un profluvio di aggettivi melliflui e lenificanti, come ad ammansire la nervosa sensibilità di un pubblico sempre più teso sulla corda di un futuro minaccioso. L’ordine che verrà, ci hanno assicurato, sarà «pacifico», «prospero», «armonioso», «giusto», «ragionevole», «libero», «autentico» ed «equo». Com’è dunque possibile che, nonostante questo impeto concorde verso un obiettivo in apparenza condiviso da tutti, la realtà cui ci troviamo di fronte sia tutt’altro che pacifica, prospera, armoniosa, giusta ed equa?
Ovviamente non si tratta di un problema di scelte semantiche azzardate; tuttavia, questa concordia lessicale, foriera di buoni sentimenti e ottime volontà, è in sé un segnale politico. Facendosi scudo di una fantomatica «comunità internazionale» con la quale ciascuno di loro sarebbe naturalmente in sintonia, i leader delle varie potenze mandano un messaggio all’apparenza inequivoco: io sto lavorando alacremente alla costruzione di un mondo pacifico, ragionevole e giusto, mentre gli altri mi ignorano nel migliore dei casi e mi boicottano nel peggiore.
Al tempo stesso, ogni leader taccerà di ipocrisia lo sfoggio di buoni sentimenti e di ottima volontà degli altri, accusandoli – questa volta a ragione – di voler ingannare l’«opinione pubblica mondiale» al solo scopo di capitalizzare qualche vantaggio politico per sé e per il proprio paese. Ma, restando in campo lessicale, bisogna aggiungere che, mentre è difficile equivocare sul senso di aggettivi quali «pacifico», «prospero», «armonioso» (se non altro come opposti di «litigioso», «indigente», «caotico»), aggettivi come «giusto», «ragionevole», «autentico», «equo» si prestano più facilmente a interpretazioni soggettive: quel che appariva giusto, autentico ed equo agli occhi di Vladimir Putin, per esempio, appariva sicuramente ingiusto, adulterato e iniquo agli occhi dei suoi rivali (e probabilmente di molti dei suoi amici).
Per questa ragione, anche il più ingenuo dei destinatari del messaggio sarà portato a passare al setaccio critico l’uso degli aggettivi; anzi, tanto più questi sono roboanti, tanto più saranno accolti con sospetto. Le difese si abbassano invece quando si tratta del concetto di «ordine mondiale». Non perché sia esente da ambiguità, ma perché quasi tutti i destinatari del linguaggio politico, per mancanza di tempo e di interesse, tendono ad accettare come scontato il significato di parole e formule cui sono abituati, ma del cui contenuto, in realtà, sanno poco o nulla. Parole e formule come «Stato», «democrazia», «sovranità», «valori», «diritti dell’uomo», «comunità internazionale», «Occidente» e così via vengono comunemente recepite come se tutti fossero d’accordo sui contenuti che esse veicolano; ma, quando si gratta un po’ la superficie, ci si accorge che ciascuno vi attribuisce il significato che preferisce o che si attaglia meglio ai propri desideri, alle proprie speranze e ai propri scopi.
Così, per esempio, da anni in Ungheria, Polonia, Turchia e perfino in Israele e altrove si contrappongono fieramente difensori della democrazia da una parte e… difensori della democrazia dall’altra: gli uni sostenendo che l’essenza della democrazia è l’equilibrio tra poteri – il sistema dei checks and balances (controlli e contrappesi) – e gli altri sostenendo che, avendo vinto le elezioni, il popolo aveva dato loro mandato di occupare tutti i centri di potere e di assoggettare tutti quelli di contropotere. Il fruitore medio del termine in questione, «democrazia», aveva di che trovarsi disorientato, anche se, essendosi ormai affermata come luogo comune la semplice equivalenza tra democrazia e appello alle urne, tendeva a dare ragione ai secondi piuttosto che ai primi.
Il pressappochismo con cui viene trattato il vocabolario della politica dipende non soltanto dal fatto che la gente comune ha altro cui pensare o che una gran parte dei cosiddetti «esperti» non fa che ripetere quello che dicono tutti, per conformismo, convenienza o accidia; ma dipende anche – ed è quello che qui ci interessa – da una convinzione molto diffusa: che la politica sia il terreno di incontro, confronto e scontro delle idee, le quali sono per loro natura soggettive; e che dunque ogni parola usata in politica sia l’etichetta di una scatola vuota, in cui ciascuno può infilare ciò che preferisce. Voler combattere questa concezione è una pura perdita di tempo e di energie; si può, invece, avanzare un’altra concezione, secondo la quale la politica è il terreno di incontro, confronto e scontro non delle idee, ma di interessi diversi; e che individuare quegli interessi è la condizione necessaria (ma non ancora sufficiente) per capire la politica, o perlomeno per raggiungere un livello di approssimazione che permetta di orientarsi meglio.