Celebrati maestri Il 2024 si sta rivelando rivoluzionario per l’ecosistema della moda

Il nuovo anno si è aperto con l’addio di Dries Van Noten. Poco dopo, Alessandro Michele è subentrato a Pierpaolo Piccioli da Valentino. Forse, il motivo di tutti questi cambi di poltrona è che «l’umanità è fuori moda», come scrive la fashion director del New York Times Vanessa Friedman

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A volte, quando nella propria vita si è raggiunto l’obiettivo che ci si era preposti, la visione creativa che si sognava da ragazzini può prendere vita e conquistare un pubblico che, fino al momento prima, si sentiva non rappresentato. È un fenomeno salutare, oltre che il segnale di un’avvenuta maturazione. Per quanto nel mondo della moda si sia poco abituati ad eventualità del genere, tra designer e direttori creativi che hanno da molto, moltissimo, superato gli anta, ma anche la loro presa sul pubblico e che hanno nessuna voglia di abbandonare il ruolo da protagonisti, a volte succede. Ribadiamolo a scanso di equivoci: aver raggiunto o superato una certa età nulla ha a che fare con la contemporaneità e la rilevanza del proprio lavoro.

Essendo l’ecosistema della moda un universo a sé stante, dove è facile coltivare narcisismi e megalomanie per decenni e man mano che si guadagna autorevolezza è sempre più semplice circondarsi di una corte di yes men che accettare qualunque forma, seppur costruttiva, di critica, diventa di conseguenza arduo scegliere di chiudere la porta e ritornare nel mondo reale, seppur nel ruolo di un “celebrato maestro”. Quando si è dedicata una vita intera alla realizzazione di uno scopo lavorativo, limitando il nostro agire in qualunque altro emisfero, sentimentale, affettivo, politico, perché quel sogno aveva la precedenza su tutto il resto, anche se si è detto e si è dato tutto il possibile, è umanamente spaventoso il pensiero che, da un certo momento in poi, le nostre giornate si svuoteranno di quel pensiero che ossessivamente ci ha rincorso per decenni: un pensiero che in alcune stagioni ci è sembrato di aver messo a punto meglio che in altre, ma che comunque è stato al centro delle nostre riflessioni.

E invece, con la grazia che lo ha sempre contraddistinto, il sessantaquattrenne di Anversa Van Noten, ha annunciato il 19 marzo che la prossima collezione maschile del brand omonimo da lui fondato sarà anche l’ultima con la sua firma. Con una lettera stringata, ma piena di consapevolezza e gratitudine, lo stilista ha infatti annunciato il suo desiderio di ritirarsi dal ruolo di direttore creativo del suo brand (di cui è azionista di minoranza, visto che nel 2018 il conglomerato spagnolo Puig ne ha acquisito la maggior parte delle quote). La collezione femminile che andrà in scena a Parigi nel mese di settembre (la s/s 2025) sarà disegnata dall’ufficio stile, nel mentre si sono già attivate le ricerche per un direttore creativo che lo sostituisca. Van Noten rimarrà coinvolto nel brand, ma non è ancora chiaro in quale ruolo. «Mi preparo da tempo per questo momento», scrive lo stilista all’interno della lettera, «e credo che sia venuto il momento di fare spazio ad una nuova generazione di creativi, di modo che possano portare la loro visione al brand. Ora voglio concentrarmi su tutto ciò per cui non ho mai avuto tempo».

sfilata Dries Van Noten, LaPresse

E per quanto sia comprensibile sentirsi orfani di un uomo elegante e gentile, che alle luci della ribalta del Met ha sempre preferito la luce del sole che illuminava le sue peonie nel giardino della casa in campagna, la sua scelta è rispettabile, comprensibile, ammirevole, in quanto pura espressione di un sentire personale, adeguato a modi e tempi di un brand che non è più soltanto suo. A far battere furiosamente i tasti del pc di giornalisti e commentatori, è stato però l’avvicendamento veloce tra Pierpaolo Piccioli e Alessandro Michele, nuovo direttore creativo di Maison Valentino. Il 22 marzo, tramite un post sul suo account Instagram – sostituto molto più efficace dei vecchi e impersonali comunicati stampa, utili solo a definire fredde date di decorrenza – il designer di Nettuno ha annunciato il suo addio alla maison fondata da Valentino Garavani, dopo venticinque anni nei quali ha lavorato negli atelier di Palazzo Mignanelli ricoprendo diverse cariche, prima di divenirne direttore creativo nel 2008, insieme a Maria Grazia Chiuri, e poi dal 2016 in solitaria.

«Non tutte le storie hanno un inizio ed una fine, alcune vivono una specie di eterno presente che brilla di una luce intensa, così forte da non lasciare ombre» ha scritto Piccioli. «Sono stato in questa azienda per venticinque anni, e per venticinque anni sono esistito ed ho vissuto insieme alle persone che con me hanno intessuto le trame di questa storia bellissima che è mia e nostra.Tutto è esistito ed esiste grazie alle persone che ho conosciuto, con cui ho lavorato, con cui ho condiviso sogni e creato bellezza, con cui ho costruito qualcosa che appartiene a tutti, e che resta immutabile e tangibile». La reazione emotiva del pubblico non è tanto correlata alla durevolezza del suo percorso all’interno della maison romana – d’altronde oggi i direttori creativi hanno una vita media brevissima all’interno di un brand, e Piccioli era l’eccezione più che la regola – quanto alla vicinanza che il pubblico, anche quello non direttamente interessato alla moda, sentiva nei suoi confronti. Poco simile ai suoi colleghi nel suo essere cerebrale eppure pop, con riconoscimenti che farebbero girare la testa a chiunque ma ancora legato alla Nettuno delle origini, dove vive con la moglie Simona Caggia e i tre figli, Pierpaolo Piccioli è stato l’emblema dello stilista in linea col suo tempo, e non distaccato in emisferi altri.

Pierpaolo Piccioli, LaPresse

Come noi si è esposto sui social per le cause nelle quali crede, dal ddl Zan ai vaccini in era covid19 fino alla dichiarazione nella quale si definiva “uomo di sinistra”. Un direttore creativo che non scappi terrorizzato di fronte ad argomenti sociali, politici – dove l’etimologia di politica sta per arte del governo della società, da non confondere con qualunque corrente partitica – non si vedeva in Italia dai tempi di Franco Moschino. Capace di usare la sua innegabile posizione di privilegio per far luce sui giovani talenti, riconoscere il lavoro del suo ufficio stile e delle sue sarte, o portare all’attenzione del milione di persone che lo segue su Instagram argomenti che la moda non mastica per comprovata allergia, questa sua attitudine lo ha fatto passare di stato: dalla forma ariosa e inconsistente di un designer magari geniale ma disinteressato alla realtà, chiuso nei suoi atelier tra privilegiati come lui, a quella solida di un essere umano che, pur in una condizione di innegabile vantaggio, guadagnata con il talento e l’abnegazione, non ha smesso di essere presente al suo tempo e si rifiuta di sfuggirgli.

E infatti, dopo l’annuncio dell’addio di Van Noten e quello di Piccioli, la fashion director del New York Times Vanessa Friedman si è chiesta: “L’umanità sta andando fuori moda?”. Nel pezzo “Is humanity out of fashion” la giornalista afferma che « A prescindere dalle modalità di uscita, che siano stati licenziati o che si siano semplicemente accordati nel disaccordo (e nel caso del signor Van Noten, sembra che stesse pianificando il suo addio da diverso tempo) è chiaro che questi designer hanno percepito che le correnti della moda non si stavano muovendo a loro favore. Le emozioni e i sentimenti sono out; essere coolness e memificabili è in. Invece che scendere a compromessi, sono andati via. E se la caveranno». E si è certi, nonostante non si abbia notizie sul futuro di Pierpaolo, che di Piccioli torneremo a sentir parlare presto, magari appena dopo la scadenza delle ultime clausole contrattuali, che molto spesso in questi casi richiedono ai designer uscenti di non andare a lavorare per una maison concorrente per almeno un anno.

Alessandro Michele, LaPresse

Qualche giorno dopo l’annuncio dell’addio di Pierpaolo Piccioli, dopo diverse teorie cospirazioniste sussurrate alle cene di lavoro, si è avuta la conferma di un ritorno molto atteso, quello di Alessandro Michele, che dopo un anno e mezzo dal suo addio a Gucci, è stato nominato direttore creativo di maison Valentino. Una nomina che, arrivando prossima alla Pasqua, ha suscitato una serie di divertenti meme e battute, complice la somiglianza tricologica tra nostro signore Gesù Cristo e il designer romano, accolto sui social dalla solita folla, che nel caso di Alessandro Michele si schiera tra supporter acritici, accoliti, quasi discepoli, e detrattori che hanno già deciso che l’accoppiata non è riuscita.

Un pregiudizio infondato, considerato che durante la lunga storia di maison Valentino prima dell’arrivo di Pierpaolo Piccioli, il brand negli anni Ottanta ha flirtato ampiamente con il massimalismo, ed è probabile che Alessandro Michele scelga di percorrere quel filone, nella sua rivisitazione del brand. La nomina è stata comunque accolta dal designer romano con un post su Instagram nel quale si dice pieno di gioia e gratitudine per questo momento. «Oggi cerco le parole più adatte per dire la gioia, per renderle omaggio: i sorrisi che scalciano in petto, il senso di profonda gratitudine che accende gli occhi, quel momento prezioso in cui necessità e bellezza si tendono la mano. La gioia è però cosa talmente viva che temo di ferirla, dicendola. Che basti quindi il mio inchino a braccia spalancate per celebrare, in questo inizio di primavera, la vita che si rigenera e la promessa di nuove fioriture».

Se quindi non c’è una incoerenza di fondo tra l’heritage di maison Valentino e Alessandro Michele come creativo, è comprovato che ogni stilista, quando è chiamato a dirigere una maison fondata da altri, sceglierà di quel patrimonio artistico l’angolazione che sente più sua, basti pensare all’Yves Saint Laurent firmato da Hedi Slimane, che nella sua parentesi di successo nel brand si è soffermato quasi esclusivamente sul retaggio anni Ottanta della maison, incluso il flirt con il rock’n roll, dimenticandosi stampe e colori accesi o gli accenni all’amata Marrakesh. Accenni che, ad esempio, Anthony Vaccarello ha riportato in passerella più di una volta.

In entrambi i casi nessuno ha mai solo pensato che i due direttori creativi fossero non aderenti all’eredità della maison: essendo due esseri umani diversi alla guida di un brand fondato agli inizi degli anni Sessanta, c’è abbastanza materiale perché ognuno ne scelga una parte che percepisce più vicino al suo sentire, e si dedichi a trasportarla nella contemporaneità. Al di là delle questioni stilistiche, gli addetti ai lavori si sono interrogati sul perché la scelta sia ricaduta proprio su Michele, considerato che dallo scorso anno Kering – conglomerato che possiede anche Gucci, e quindi ex datore di lavoro dello stilista, con il quale il divorzio è stato cortese nei toni, ma sostanzialmente freddo – ha acquisito il trenta per cento di maison Valentino da Mayhoola, con l’opzione di acquistare tutto il brand entro il 2028. Perché, insomma, Kering ha avvallato la nomina di uno stilista con il quale ha già avuto una relazione intensa in passato?

François-Henri Pinault, LaPresse

A livello ufficiale, l’amministratore delegato di Kering François-Henri Pinault ha avuto solo parole di incoraggiamento per Michele: «Sono molto felice che Alessandro sia stato nominato al vertice della direzione creativa di Valentino, e sono certo che con la sua creatività, cultura e talento eclettico, saprà interpretare magnificamente la tradizione unica di questa splendida maison, e farla brillare», ha commentato. «Sono impaziente di vedere la sua passione, immaginazione e dedizione all’opera, nel dare forma a questo nuovo capitolo della storia di Valentino».

Da parte sua, Michele ritroverà in maison Valentino Jacopo Venturini, CEO del brand che in passato è stato fondamentale assetto di Gucci: quando Michele era alla direzione creativa, Venturini era infatti uno dei top manager del brand, e l’intesa lavorativa tra i due era conclamata. A conferma di un dynamic duo che si riunisce con gioia, ci sono le parole di Venturini nel comunicato ufficiale. «Sono molto contento ed emozionato di tornare a lavorare con Alessandro Michele dopo anni di lavoro insieme. Il suo talento, la sua creatività, la sua profonda intelligenza sempre legata ad una meravigliosa leggerezza, scriveranno un altro capitolo della Maison Valentino. Sono certo che la rilettura dei codici della maison e dell’heritage creati dal Signor Valentino Garavani uniti alla straordinaria visione di Alessandro ci faranno vivere momenti di grande emozione e si tradurranno in oggetti irresistibilmente desiderabili», ha scritto Venturini nella nota.

Per quanto riguarda Kering, per provare a dare una panoramica, bisogna tornare al profit warning diramato dal conglomerato il 19 marzo. Per spiegare a chi non è avvezzo ai termini finanziari, le aziende quotate in borsa sono obbligate a rilasciare con una specifica tempistica dei report sul loro stato di salute, i profitti e le perdite. Il profit warning è una comunicazione non obbligatoria e non prevista dal calendario finanziario ufficiale. Serve sostanzialmente per informare gli investitori, allineare le aspettative del mercato e mantenere una buona reputazione in termini di trasparenza, quindi è tanto più necessario diramarla quando i risultati previsti sono al di sotto delle aspettative, come in questo caso.

Marco Bizzarri, LaPresse

Kering ha infatti avvertito di prevedere un calo delle vendite su base comparabile del dieci per cento su base annua nel primo trimestre. «L’andamento riflette in primo luogo una flessione più marcata delle vendite di Gucci, in particolare nella regione Asia-Pacifico. Su basi comparabili i ricavi di Gucci nel primo trimestre sono previsti in calo di quasi il venti per cento su base annua», spiega in un comunicato ufficiale. Nulla del quale si possa dare responsabilità alla gestione di Sabato De Sarno, nominato poco più di un anno fa. Infatti, spiega la stessa nota, i prodotti della nuova direzione creativa sono stati offerti in un numero selezionato di store Gucci da metà febbraio. Il problema del conglomerato, se problema si può chiamare, è che il brand maggiore da anni è ormai Gucci, portato proprio da Alessandro Michele a sfiorare i dieci miliardi di fatturato (le altre maison di Kering, per quanto autorevoli, a confronto fatturano meno, Saint Laurent raggiunge i 3,1 miliardi, Bottega Veneta 1,6).

Di conseguenza, un tentennamento di Gucci – tutto sommato comprensibile, considerato i tempi nei quali viviamo, tempi nei quali acquistare vestiti e borse di lusso non è in cima alle priorità mondiali – costituisce un problema per tutto il gruppo. In questo contesto, può essere intelligente lasciare il tempo a Sabato De Sarno di cambiare faccia al brand della doppia G – operazione che non si espleta in due stagioni, considerata la profonda identità retaggio del periodo Michele – investendo nel frattempo in altre maison che potrebbero portare risultati e fatturati a breve termine.

E chi potrebbe farlo meglio del direttore creativo responsabile del miracolo Gucci, che ha portato il brand da tre a dieci miliardi di fatturato in sette anni? D’altronde, per il grado di popolarità e l’aura mistica che ormai avvolge il creativo, assente dal palcoscenico della moda da un anno e mezzo, solo farne il nome sarà una rassicurazione per i buyer sulla collezione di debutto: dopo, il successo dipenderà dal reale valore del progetto di risignificazione del brand. Nel frattempo, in maniera assolutamente imprevedibile e non correlata a tutto ciò, anche l’altro uomo responsabile del miracolo Gucci, l’ex ceo Marco Bizzarri, è tornato nel fashion system: è notizia del 4 aprile che con la sua holding Nessifashion, Bizzarri ha investito in Elisabetta Franchi, assicurandosi una quota del ventitré percento e guadagnando il ruolo di presidente. Con lui, il brand potrebbe spostarsi nel segmento luxury e quotarsi in borsa, come il brand desiderava fare da prima della pandemia. Un investimento che non rappresenterà un unicum, visto che, come ha ammesso lo stesso Bizzarri «Questo nuovo capitolo della mia vita professionale sarà focalizzato sugli investimenti in aziende e in risorse umane di valore». E chissà che non nasca un nuovo gruppo della moda. Se succederà sarà solo il futuro a dircelo.

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