Un ristorante elegante, lui e lei seduti al tavolo della cena, bellissimi, scopriremo che sono due modelli. Il conto è sul tavolo. Lui la guarda e aspetta, lei sembra distratta. Pochi minuti e inizia un dialogo indisponente che ci proietta nel crepuscolo di una storia d’amore.
«Perché ogni volta che si tratta di pagare ti giri dall’altra parte?» chiede lui. «Non è vero,» si difende lei. «Eppure, guadagni molto più di me,» insiste lui.
E così avanti in un estenuante batti e ribatti finché è evidente che non stanno cercando un argomento gretto per litigare, ma stanno avendo una conversazione preziosa.
«Sono una donna, faccio la modella, il tempo del lavoro per me sarà brevissimo, voglio sapere se l’uomo con cui sto è in grado di prendersi cura di me,» dice lei a un certo punto.
Non è il crepuscolo di una relazione, è la conversazione che pochi di noi hanno avuto, lasciando alla consuetudine la definizione della gestione dei soldi in coppia.
Ho appena descritto il primo capitolo di “Triangle of Sadness”, il film danese che ha vinto la Palma d’oro a Cannes nel 2022. Carl e Yaya lavorano in uno dei pochi settori in cui le donne sono pagate più degli uomini: la moda.
A maggior ragione, le parole della modella suonano disturbanti per chi è cresciuta con
il mandato di bastare economicamente a se stessa, di sposarsi per amore o per qualsiasi altro motivo, eccetto i soldi.
Ma davvero, ancora oggi, una donna di successo deve farsi pagare la cena al ristorante per
valutare la solidità della coppia?
Eppure, nella loro crudezza, le parole di Yaya scuotono le fondamenta di una certa narrazione idealizzata dell’indipendenza femminile.
Basta volerlo, basta smettere di sognare il principe azzurro affinché non ce ne sia più bisogno. Come se il problema fosse in noi donne, se per lungo tempo abbiamo ambito a un buon matrimonio.
Un difetto di immaginazione che, una volta individuato, si debella per sempre.
Non è così, purtroppo. La modella di “Triangle of Sadness” sbatte in faccia al fidanzato che, se non prende lo scontrino sul tavolo è perché sta già pagando un conto invisibile per il fatto di essere donna.
Un conto che non sparirà solo per la sua buona volontà. Un debito con cui ogni donna viene al mondo.
Come dimostrano gli studi di Claudia Goldin, premio Nobel per l’economia nel 2023, le differenze retributive tra uomini e donne si misurano soprattutto all’interno dello stesso campo.
Negli Stati Uniti, nel terzo trimestre del 2023, ogni dollaro pagato a un lavoratore maschio equivaleva a circa ottantadue centesimi pagati a una lavoratrice (bianca).
In Italia, secondo i dati Eurostat, il gap medio tra le retribuzioni di uomini e donne è del cinque per cento, molto più basso del circa tredici per cento europeo.
Ma la spiegazione di questo apparente virtuosismo sta nel fatto che le donne sono generalmente impiegate in settori a più basso valore aggiunto, dove sono minori le disparità salariali.
Che, invece, aumentano notevolmente man mano che si sale nella scala gerarchica, dove le donne, in Italia, quasi scompaiono.
Il settore in cui è più alto il divario retributivo è quello dello spettacolo, dove i primi arrivano a guadagnare il sessantadue per cento in più rispetto alle seconde.
La disparità nel mondo dello spettacolo è quella che ha sempre fatto più rumore. Forse per il valore riconosciuto alle artiste o forse per la notorietà dei protagonisti.
Anni fa esplose il caso “American Hustle”, per il quale venne fuori che Jennifer Lawrence e Amy Adams stavano guadagnando molto meno dei loro coprotagonisti Christian Bale e Jeremy Renner.
Fu proprio Jennifer Lawrence, che era stata etichettata come l’attrice più pagata al mondo, a prendere in mano la situazione, scrivendo un articolo per «Lenny’s Letter», la newsletter di Lena Dunham, in cui mise in dubbio l’industria per le sue pratiche salariali sessiste.
Ma la stessa Lawrence affidò a quell’articolo la spiegazione del perché queste piccole ma eclatanti rivolte finiscano per non avere alcuna ricaduta nella vita della gente comune.
«È difficile, per me, parlare della mia esperienza di donna lavoratrice, perché non è facile identificarsi con i miei problemi».
La battaglia di una manciata di donne di potere, celebri e ammirate in tutto il mondo, per milioni di dollari di cui non hanno bisogno, non ha alcuna possibilità di smuovere un’azione collettiva. Ma di sicuro ci restituisce la dimensione sistemica di questa disparità retributiva.
Il lavoro delle donne viene pagato meno fin dalla notte dei tempi. Yuval Noah Harari racconta che uno dei primi denari della storia fu la misura d’orzo dei sumeri, che comparve attorno al tremila a.C.: ai tempi, un bracciante guadagnava sessanta sila al mese, trenta se era una donna.
La svalutazione del lavoro femminile nasce con la rivoluzione agricola assieme al patriarcato e accompagna la storia dell’umanità da allora fino a oggi.
Benché pagata meno dell’uomo, però, finché la donna ha avuto a disposizione la terra da coltivare, i boschi, le altre risorse naturali e tutti i beni comuni, non è mai stata veramente povera.
Persino nella società feudale, che siamo abituati a considerare oscurantista, «le donne lavoravano nei campi, oltre ad allevare i bambini, a cucinare, a lavare, a filare e a tenere un orto; la loro attività domestica non era svalutata e non contemplava rapporti sociali diversi da quelli degli uomini» registra Silvia Federici.
Tutto cambia quando, con l’espropriazione delle terre ai contadini, si scivola inesorabilmente dentro l’economia monetaria e i rapporti lavorativi iniziano a essere regolati da un salario.
Silvia Federici, ne «Calibano e la strega», si sofferma proprio su questo punto di svolta della storia. È quello il momento in cui il lavoro domestico, non essendo retribuito con le monete, smette di essere visto come un vero lavoro.
Non solo: le donne perdono il diritto a ereditare la tertia, ovvero un terzo delle proprietà del marito, e vengono escluse dal possesso, specie se nubili e vedove.
Ecco perché furono in tante a trasferirsi in città, dove erano più autonome e libere di organizzarsi in comunità e anche di fare mestieri che, in seguito, sarebbero stati considerati maschili: fabbri, macellaie, fornaie, artigiane di ogni tipo, commercianti.
Tante si unirono ai movimenti eretici, dove ebbero un’importante posizione sociale e molta libertà di azione, talvolta formando comunità autonome. Federici racconta questo «intervallo della storia» come l’arena in cui se la giocano molti futuri possibili.
I due secoli in cui il modello economico feudale è rimasto nel limbo della crisi sono stati ricchi di sperimentazioni e possibilità, dalle quali poteva emergere un nuovo modello in cui il salario e l’economia monetaria liberavano le donne dal patriarcato.
In alternativa, poteva affermarsi un sistema che le escludeva completamente dalla relazione con i soldi, affinché continuassero a espletare il loro compito di addette alla riproduzione, senza alcuna possibilità di ribellarsi.
Ha vinto il secondo modello.
Nel Quattrocento, il processo di allontanamento delle donne dai soldi è pressoché compiuto. Quando a venticinque anni diventa vedova, con tre figli piccoli, un nipote e una madre a carico, Christine de Pizan prende per la prima volta in mano la gestione finanziaria della sua famiglia.
Scopre che il marito non riscuote lo stipendio da anni, è braccata da conoscenti che esigono crediti già restituiti e bussa alla porta di coloro che dovevano soldi al marito, ma che fingono di non sapere nulla.
Mentre cerca giustizia in tribunale, con cause lunghe fino a quattordici anni, si mette a lavorare.
Diventa la prima scrittrice professionista della storia, con una squadra di copisti e miniaturisti che lavora al confezionamento dei suoi libri.
Di che cosa scrive? Innanzitutto, di come le donne fossero tenute volutamente lontane dai soldi e dagli affari. Era il 1405. Gli albori di un modello che sopravvive fino a oggi.