So bene che nello scrivere una recensione si dovrebbe esordire con i doverosi accenni sull’opera – titolo: “Aria di famiglia”; autore: Alessandro Piperno; edito da Mondadori –, proseguire con una breve panoramica sui romanzi precedenti, articolare una sintesi della trama e un’analisi dello stile, per lasciar spazio poi ai commenti personali, ma trattandosi di uno degli scrittori più talentuosi dell’orizzonte narrativo italiano comincerei col dire che l’ultimo romanzo di Alessandro Piperno è semplicemente: imperdibile.
Non c’è bisogno di aver letto il suo antecedente, “Di chi è la colpa” (Mondadori), per seguire i nuovi slittamenti che l’autore infligge alla vita del professor Sacerdoti: pur condividendo il medesimo protagonista, i due libri sono libri a sé, sebbene si conceda ai lettori affezionati la luce di minuscoli rimandi e il gusto di rintracciare fra le pagine legami a denunciare un universo già noto, che accoglie e conforta come un ritorno a casa.
Sacerdoti è ora un uomo di mezza età. Lo stesso impudico delizioso tenero e goffo misantropo di quando era giovane, ma con quel tocco di fatalismo in più a cui a volte costringe il tempo. Chi conosce l’opera dell’autore, chi ha amato di lui non solo i componimenti letterari ma anche i numerosi saggi, riconoscerà nell’incipit un personale omaggio a “Il tempo ritrovato” di marca proustiana o a quella che è la sua rivisitazione moderna più felice: “Pastorale americana” di Philip Roth. In una chiesa di Piazza del Popolo si celebra il funerale della ragazza che al liceo aveva condiviso il banco con Sacerdoti, e il nostro si fa largo fra la folla dei vecchi compagni per poi finire a una rimpatriata stile “Il grande freddo”.
«Niente come le disgrazie degli altri ti aiuta a mettere le tue in prospettiva». In confronto alla morte di Veronica le grane accademiche del professore, convocato dalla Commissione paritetica dell’ateneo per difendersi dalle accuse di maschilismo mosse da una sua collega, perdono di tragicità. Se non fosse che proprio in virtù di questo incidente, il nostro, agitato dall’irresistibile appetito per la provocazione oziosa, arriverà a lasciare l’insegnamento e a consegnarsi a una vita diversa rispetto a quanto preventivato.
L’ipocrisia che non di rado si cela dietro le rivendicazioni femministe, da alcune tristemente trasfigurate in sotterfugio per guadagnare spazio, emerge dal biasimo della professoressa Ghinassi, e non si può che stare dalla parte di Sacerdoti, versione novecentesca di un baronismo che adesso ha cambiato pelle solo per replicare nelle nuove vesti le vecchie dinamiche di potere.
Ma è qui che Piperno affonda il colpo e spiazza. Troppo facile fare ironia su un personaggio tanto epidermicamente detestabile come Teresa Ghinassi. L’ironia sarà pure uno degli ingredienti irrinunciabili dello stile piperniano, ma grazie al talento dell’autore viene dispensata in una misura che si protegge dall’essere eccedente. L’ironia è, sì, gioco intellettuale, distanza da una dose strabordante di tinte cupe, e tuttavia nel romanzo non è mai sazia di sé.
Ogni personaggio ha le proprie ragioni, ogni tesi il suo contraltare, tanto che perfino un uomo borioso come Sacerdoti s’accorge sgomento di come il suo amato mentore, in altri tempi, pre-MeToo e pre-Ghinassi, allungasse occhi e mani sulle giovani dottorande nel silenzio complice di primari e comprimari.
Questa, però, è soltanto la cornice inziale perché il cuore del romanzo batte altrove e la forza necessaria a direzionare il sangue del racconto si sprigiona dalla comparsa in scena di Noah, il nipotino che viene scaricato nella casa di Sacerdoti alla morte dei suoi genitori.
Esergo del romanzo, da Philip Larkin: «Quando ero giovane pensavo di odiare tutti, ma quando sono cresciuto ho capito che sono solo i bambini che non sopporto. Piccoli bruti egoisti, rumorosi, crudeli e volgari». E ancora una volta Piperno spiazza, perché messa a sigillo del romanzo una tale freddura fa di tutto per sconsacrarla.
Perfino il topos letterario del vecchio misantropo con l’orfanello – da ora in poi a vibrare nelle pagine ci sarà un afflato dickensiano – subisce non pochi scossoni, e al posto di una povera creatura senza affetti e senza soldi ci ritroviamo con un adolescente miliardario e un padre putativo che più tenero, pur nelle idiosincrasie, non potrebbe essere.
Verrebbe da pensare che, avendo come uno dei due protagonisti un dodicenne, la parabola di formazione tocchi a lui. E invece no. Non solo. Non in modo preminente, dato che più che il piccolo Noah è il vecchio Sacerdoti ad accogliere un diverso punto di vista sui rapporti affettivi. Fino all’epilogo che contraddice le aspettative, lasciando i lettori instupiditi da tutta la grazia che si sprigiona dentro quel sentimento di felice amarezza.
Ci troviamo davanti a un romanzo familiare che indaga una forma non tradizionale di famiglia, quella che si crea oltre i legami di sangue, che nasce sì nell’asse di generazioni e di una cultura condivise, ma che poi trova un centro al di là dell’appartenenza religiosa e genetica. Ci troviamo dentro un romanzo con il respiro e l’eleganza formale di un’opera ottocentesca, ambientata però nella più tragicomica contemporaneità.
Anche per questo “Aria di famiglia” è imperdibile – suona pomposo, ma tant’è. In un’offerta letteraria in cui vari autori subiscono il fascino di stilemi facili quali il folclore, l’aspetto pittoresco o corrivo della realtà, “Aria di famiglia” è un romanzo borghese che smentisce le premesse e ribalta i canoni, pur restando nei ranghi di una narrazione classicheggiante, senza quel profluvio di paratassi a cui alcuni romanzi ci stanno abituando, senza resa alle mode del momento, senza furbizie.
Con tutta l’arguzia, invece, di un autore che non teme di dar forma a protagonisti pervasi da sgradevoli debolezze e inaspettate virtù, colmi di ambiguità, ricchi di quelle imperscrutabili contraddizioni tramite cui la grande letteratura ci ha da sempre indagati. E deliziati.