È sabato mattina, su un Frecciarossa Roma-Milano. La cerimonia dei premi David è finita da dodici ore ed è andata proprio come tutti avevano previsto: il primo premio della serata, quello per l’attrice non protagonista, l’hanno dato a Emanuela Fanelli, non alla ragazza che in “C’è ancora domani” faceva la figlia della Cortellesi (un’adolescente del 1946 con le ascelle depilate).
Era una scelta dopo la quale si poteva spegnere, perché il messaggio era chiaro. Era: la Fanelli è sempre la cosa migliore di ogni cosa in cui compaia, pure di ’sto film sopravvalutato che ci tocca premiare per non sembrare alieni allo Zeitgeist, ma lo premieremo il minimo indispensabile, che comunque è sempre più di quanto premiamo di solito i film popolari, da Muccino a Zalone.
Era una scelta che rendeva ovvio, tre ore prima del finale, che il premio come miglior film sarebbe andato a Garrone, in omaggio a quella cosa che disse Nanni Moretti nel 1989 e che in questo secolo è più valida che mai: col tema importante si vince sempre, ricattando il pubblico (non che la regoletta non valesse per il film della Cortellesi).
Ma non è che una guardi i David per sapere chi vinca, li guarda per sapere che disastro di serata sarà, chiusa da un disastroso discorso di Piera Detassis (presidente dei premi David e concorrente favorita al premio Oratrice più noiosa d’Italia), che non era stata capace di far arrivare sul palco statuette per ogni premiato (a ogni premio a tre sceneggiatori o quattro responsabili del suono per i quali c’era una sola statuetta io pensavo: una cosa dovevate fare, a una cosa serve provvedere nelle premiazioni, possibile non ne abbiate mai vista una?), e quindi eccoci lì.
Ora però è sabato mattina, la premiazione è finita, un’amica è su un Roma-Milano, e seduta vicino a lei c’è una giovane giornalista. La giovane giornalista sta facendo quella cosa che si fa su quel che resta delle riviste femminili in questo secolo: la sfilza di foto dei vestiti della cerimonia. In neolingua: la gallery del red carpet.
L’amica guarda il monitor del computer della giovane giornalista, in difficoltà perché insomma, si sa come sono queste cerimonie, non tutti sono così riconoscibili, specie nell’epoca in cui scarseggiano le Liz Taylor e abbondano quelle famosissime per i loro follower e ignote per il resto del mondo. Per fortuna ci sono i comunicati degli stilisti, così la giovane giornalista può pubblicare le foto senza affaticarsi. Però qualcosa nelle didascalie deve scrivere, per spiegare chi sia questa tizia che sta pubblicando. Quindi la giovane giornalista apre Google e digita sotto gli occhi vegliardi e attoniti della mia amica: chi è Serena Dandini.
La giovane giornalista non è un esempio particolarmente spiccato d’inadeguatezza, in un mondo in cui l’ultimo rimasto a saper fare il proprio lavoro è Fiorello. Venerdì sera, guardavo la premiazione e pensavo: hai l’unica platea inquadrabile della televisione italiana, una platea con le celebrità, e non la inquadri mai. Sul finale, mentre la Detassis faceva un interminabile discorso montessoriano sulla buona volontà che ci avevano messo a fare quel disastro di diretta, il regista ha staccato sulla platea per mezzo secondo.
Mezzo secondo che è bastato a noialtre disperate, fameliche di show e non di discorsi sul cinema che è una grande famiglia (in confronto alla Detassis, l’assessore sanremese che monopolizza le conferenze stampa chiedendo s’inquadrino i fiori è Walter Chiari), per notare che vicino a Nanni Moretti si era seduto Biggio, compare di Fiorello nel varietà mattutino e premiatore minore in quella tragica cerimonia, e gli stava facendo vedere qualcosa sul cellulare. Cosa. Come mai. Diteci. Fateci vedere. Ma niente, la regia più bella del mondo stava già di nuovo inquadrando la Detassis con la faccia di una cui fanno male le scarpe.
Sabato mattina, apro Instagram e c’è Fiorello che sta facendo vedere quel momento annunciando che stamattina, lunedì, nel suo varietà sentiremo come Nanni Moretti – forse unico rappresentante del cinema italiano rispetto a una cui frase siamo tutti curiosi – commentasse quel che gli stava facendo vedere Biggio. Quando leggerete questo articolo l’avrete già visto, e potrete confermarmi che sì, l’ultimo rimasto a sapere come si fa è Fiorello.
Non sa più fare il suo lavoro nessuno. Non gli autori televisivi, che si fanno venire la bella idea di movimentare la serata ambientando alcune premiazioni non sul palco ma in mezzo ai set di Cinecittà (sì, va bene, sono stati quelli di Cinecittà a richiederlo: il paese dello scarico di responsabilità), col risultato che lo scenografo premiato ha fatto un numero da matto di piazza Barberini che ha spaziato dal dire che li premiavano nel sottoscala perché sono considerati vetriniste (incredibilmente ancora non pervenuto comunicato offeso del sindacato vetriniste) allo spiegarci i diversi tipi di sionismo, di antisemitismo, di rava, di fava.
Non sa più fare il suo lavoro nessuno. Non il pubblico, che passa il sabato a twittare che è uno schifo, non hanno dato nessun premio ad Alice Rohrwacher, le hanno pure distribuito male il film, è uno schifo, i poteri forti la ostacolano; ma, se ognuno di quelli che twittano indignati fosse andato a vederne il film, non dico che Rohrwacher sarebbe Cortellesi, ma quasi.
Fa tra l’altro particolarmente ridere che questa paranoia sia riferita ad Alice Rohrwacher, che va al Quirinale con la fontanella in testa legata con l’elastico, come noialtre normali non oseremmo neanche andare al lavasecco sotto casa, e tuttavia viene considerata cool, giacché la coolness funziona così, c’è in effetti un sistema (sì, malati di delirio paranoide: i poteri forti esistono) che decide se lo squalo di Damien Hirst è una puttanata o un’opera di genio, e il sistema ha deciso che Alice R è cool, e solo a osservatori molto inabili a osservare può sembrare un’outsider ostacolata dal sistema stesso.
Non sa più fare il suo lavoro nessuno. Non gli addetti al suono: del discorso di ringraziamento di quella che ha vinto il David appunto per il sonoro non si sente quasi niente perché, è un minuto ipnotico nella sua incredibilità, una tizia che di mestiere si occupa di sonoro non ha chiaro che perché quel che dice arrivi al pubblico deve parlare dentro al microfono, non agitarlo a caso come una valletta esordiente alla quale nessuno abbia mai spiegato come funzioni l’amplificazione.
Non sa più fare il suo lavoro nessuno. Non la sottosegretaria di destra che sale sul palco e ripete varie volte che ora potremo andare, noi del pubblico, a vedere i film italiani a tre euro e mezzo «e il resto ce lo mettiamo noi» (noi governo, cioè noi quattro che paghiamo le tasse); il che renderà pure felice la platea che nel cinema ci lavora, ma non sono sicurissima che l’elettorato sia lieto che i biglietti del cinema li paghi la fiscalità generale. L’elettorato che il biglietto per la Cortellesi se l’è pagato e si paga pure la cartigienica nelle scuole dei figli (sì, sto facendo del bieco populismo dicendo che nelle scuole non c’è la cartigienica e noi diamo soldi ai cinematografari incapaci di creare opere che qualcuno abbia voglia di pagare un biglietto intero per vedere; sto facendo del bieco populismo, ma datemi torto).
Non sa più fare il suo lavoro nessuno. Non, chiedo perdono se mi accanisco, gli autori televisivi che scrivono il compitino alla povera Marcuzzi facendole citare a Sorrentino una frasetta a caso d’un suo film, ma non preparandole la domanda relativa, e lei porella sta lì, ad aspettare che Sorrentino faccia lui il lavoro di chi la soccorre, e lui la guarda con quella sua stupenda espressione schifata, e però insomma, Alessia, già l’ammorbidirsi senile di Nanni Moretti ti aveva fatto la grazia – in quella penosa gag iniziale che non descrivo per non infierire – veramente pensavi di venire esentata dalla tassa dello scorbutico due volte, veramente pensi d’avere un bonus eterno perché tutti hanno l’età che avevano quando li abbiamo visti la prima volta e quindi tu sei sempre ventenne da cui non aspettarsi troppo anche ora che hai passato i cinquanta e fai la tv da trenta?
Non sa più fare il suo lavoro nessuno. Non Alessia Marcuzzi, che – quando Milena Vukotic fa il nome del regista che da giovane le disse che non sarebbe andata da nessuna parte ma poi hanno lavorato insieme e lei non gliel’ha mai ricordato – commenta «gliel’abbiamo ricordato adesso», non potendo lì per lì verificare da quanti decenni sia morto e non avendo avuto l’ardire di controllarlo prima, sarà vivo o sarà morto il protagonista dell’aneddoto che le chiediamo di raccontare, sarà plausibile sia vivo uno che scartò l’ottantanovenne Vukotic ai suoi esordi?
Non sa più fare il suo lavoro nessuno, neanche chi organizza le redazioni, e avrebbe potuto fare un contrattino piccino picciò a qualche ventenne di buona volontà che, oltre a “Serena Dandini”, fosse in grado di googlare “Renato Castellani, nato nel 1913, sarà davanti alla tv stasera?”.