Cannes al ventoLa figaggine di Sorrentino, la stupidità di Bologna e la ciclica puttanata sulla schwa

Le suscettibili postmoderne si sono indignate perché lo scrittore Emanuele Trevi ha definito «dementi» quelli che si sentono offesi dalle desinenze e «seguaci» coloro che vanno dietro a Vera Gheno. E questo è tutto ciò che ho da dire sulla demenza contemporanea

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Purtroppo non esiste un filmato di Emanuele Trevi che, mercoledì sera, arriva a un aperitivo romano per il premio Strega in jeans e occhiali da sole e faccia da schiaffi, compiaciutissimo d’essere al centro della polemica del pollaio social; ma mi dicono che, se esistesse, sarebbe assai simile al filmato di Paolo Sorrentino che avrete visto girare su Twitter.

Sorrentino è in smoking e non ha gli occhiali da sole, ma ha un’espressione «ma dove vuoi andare senza di me che sono il più figo del mondo» che ricordavo d’aver visto solo a Mickey Rourke in “9 settimane e 1/2”, film che molto contribuì alla passione per i maschi dall’ego ingombrante delle bambine degli anni Ottanta.

Trevi, mi dicono osservatori superficiali (cioè gli unici osservatori utili), dalla faccia che aveva mercoledì deve aver ricavato dalla polemica originata dalla puntata di domenica di “Dilemmi” lo stesso sentirsela calda (per le definizioni spicce e un po’ volgari, il romano è imbattibile) che a Sorrentino è servito avere un film in concorso a Cannes per procurarsi.

Prima di spiegare il contesto e le conseguenze, è necessario ch’io racconti dell’ultima volta che avevo osservato le interazioni social di Vera Gheno, linguista e santino delle suscettibili postmoderne, nonché dibattente di Trevi a “Dilemmi”.

Sarà stato uno o due mesi fa, mi appare su Facebook una polemica così composta: a Vera Gheno è arrivato in omaggio un libro di Barbara Alberti, lei trasecola di questa copia inviatale dall’editore (ma non riceve, come chiunque lavori nell’editoria, tonnellate di libri omaggio che poi deve occuparsi di smaltire?), e poi dice, a sé stessa ma soprattutto ai suoi follower, che è un evidente gesto ostile, giacché in questo libro ci sono due pagine in cui, sintetizzo, Alberti sostiene che la schwa sia una puttanata. (Evidentemente Vera Gheno è custode ufficiale della schwa, quante cose s’imparano).

Fate attenzione perché ora si entra nella parte «in Italia non si può fare la rivoluzione perché ci conosciamo tutti» della storia. Il figlio di Barbara Alberti è un mio amico, e quindi mi accade di raccontargli, in una qualunque conversazione telefonica, di questa polemicuzza. Non mettendo in conto che egli è uno dei peggiori ascoltatori di sempre, e probabilmente mentre gli parlo sta sfogliando la Gazzetta dello Sport, e quasi certamente capirà il cazzo per l’equinozio. E infatti.

Qualche giorno dopo, ricevo un suo vocale, in cui mi riferisce – con l’impeto di chi si sarà sentito dire «come si permette, la tua amica» – che la madre smentisce nel modo più assoluto di aver scritto un libro in cui dice che la Shoah è una puttanata.

Il vocale che gli lascio in risposta – «era la schwa, somaro, non la Shoah» – ovviamente non lo ascolta mai, e quindi resteremo per sempre così: che da qualche parte c’è una scrittrice convinta ch’io vada in giro a dire che lei nega la Shoah. Fa ridere ma anche riflettere: un uomo adulto e non dico informato o colto ma insomma che vive nel mondo reale, una persona normale non ha talmente mai sentito la parola «schwa» che pensa io stia parlando non di desinenze neutre ma di ebrei perseguitati, e che mentr’era distratto sua madre sia diventata una nazista dell’Illinois.

Fine del prologo. “Dilemmi” è un programma che contrappone due punti di vista su un tema. Il tema di domenica scorsa era appunto la schwa (tema che, oltre a essere di nicchia, era stato sepolto da ormai quasi un anno, cioè da quando non c’era più Michela Murgia a perorarlo: hanno deciso di rianimarlo, e non sarò certo io a criticare chi finisce le idee e deve comunque mandare in onda qualcosa, io che le idee le ho finite da decenni).

Se uno va su Facebook, sembra che Trevi abbia sputato in un occhio alla Gheno, invece di aver fatto ciò che ha fatto: dire cosa pensava della questione, mentre Gheno annuiva vigorosamente (sull’annuire di Gheno poi ci torniamo). Poiché è un ottimo momento per approfittarsene se sei una donna, una torma di intellettualmente scarse che hanno qualche piccolo ruolo nel mondo culturale solo perché, appunto, «sennò poi ci dicono che non chiamiamo le donne», accorre a spiegare al mondo che inadeguato, che dilettante, che poverino sia Trevi – uno che in effetti abbisogna della legittimazione culturale di Facebook.

Una tizia le cui opere purtroppo non conosco scrive: «Nell’ultimo romanzo di Trevi c’è molto patriarcato dentro la bella penna». La cerco su Google, e trovo una sua intervista a Paolo Conte. La più scarsa intervista a Paolo Conte che abbia mai letto, ma questo è irrilevante. Rileva, invece, che sia un’intervista in toni devoti, e insomma io un pochino Conte l’ho ascoltato, ha scritto versi come «perché d’inverno è meglio, la donna è tutta più segreta e sola, tutta più morbida e pelosa e bianca, afghana, algebrica e pensosa, dolce e squisita»: non è esattamente Susan Faludi. Conte sì, Trevi no. Patriarcato è quando bacheca fischia.

Un’altra tizia scrive di Trevi che «Come molti, ancora non capisce il privilegio da cui viene. Di genere, sociale, economico. Si sente ogni volta che parla». Fa sempre molto ridere la vocazione di certuni in questo secolo a contrirsi definendosi privilegiati, e questi certuni non sono mai Martin Amis o Lapo Elkann, ma sempre gente che ha il mutuo per un bilocale o scrive libri che leggono i parenti.

Nello specifico, però, l’invocazione del privilegio treviano da parte della signora mi ricorda qualcosa, all’inizio non ricordo cosa poi capisco, guardando la biografia di suo marito – il marito della tizia, no di Trevi – sul di lui ultimo romanzo: «Sono molti anni che lavora, attraverso la scrittura, alla decostruzione del proprio privilegio di classe e di genere». Dev’essere un tema di famiglia, chissà che conversazioni avvincenti a quel desco.

Un’altra scrive – di Emanuele Trevi, non di Vongola75 o di Bobo Vieri – «incredibile come non abbia nessuno strumento per capire dove sta nel mondo», e non sarò certo io a dire ma ragazza mia, ma tu in un’epoca intellettualmente più selettiva, in cui «ci serve una donna» non fosse una linea guida che fa grandemente premio su «ci serve qualcuno di capace», tu invece dell’editorialista di Repubblica faresti, non so, la direttrice di boutique: capisco che il mondo ti abbia illusa che siete tra pari, ma non sarà il caso che tu di Trevi parli con un po’ di rispetto?

Le indignate sono indignate perché Trevi ha definito «dementi» quelli che si sentono offesi dalle desinenze e «seguaci» coloro che vanno dietro alla Gheno. Le follower di Vera Gheno sono offese dall’essere definite follower, che in italiano si traduce appunto con «seguaci», e questo è tutto ciò che ho da dire sulla demenza contemporanea.

In tutto ciò Vera Gheno interviene tra i commenti Facebook coi toni della dolente erudita che ha dovuto portare pazienza con un interlocutore inadeguato, e mai – almeno nelle decine di commenti che ho letto – invita le sue interlocutrici a toni più urbani. Il che è normale per l’internet (dove siamo tutti cuor di leoni dopo esserci assicurati il consenso del contesto), ma bizzarro per il mondo reale in cui Gheno, in tv, sorrideva, annuiva, diceva «Trevi giustamente parla da scrittore» e «è vero quel che dice Emanuele Trevi».

Non bisognerebbe fare il contrario? Non bisognerebbe avere quella ’nticchia di coraggio (mi pare pure pomposo definirlo «coraggio»: forse «dignità» ha più senso) necessaria a contestare l’interlocutore in sua presenza, e a trattarlo con garbo in sua assenza?

Ma la vera questione è: Trevi accenna a una questione di «fratellanza» e comune di Bologna, in trasmissione nessuno si degna di spiegarla, Google mi soccorre e subito mi serve un cardiotonico. Il Pd di Bologna ha, scopro, fornito delle linee-guida per la comunicazione. Invita a evitare, allorché l’artista è femmina, la dicitura «paternità dell’opera», ma pure di dire «fraternità tra le nazioni», sennò poi le femmine si sentono escluse.

Invece di dire a chi fa i comunicati «usa queste parole invece di queste altre sennò poi sui social chi li sente», gli amministratori della città più stupida del mondo hanno fatto sapere al pubblico che esiste questa delibera. Acciocché tutti sappiano che la spazzatura non la raccolgono, nella biblioteca pubblica si pagano due euro per pisciare, ma, ehi, non gli scappa mai un «fraternità» di troppo. Acciocché tutti sappiamo che l’unica cosa di cui si sa occupare la politica di questo secolo sono le puttanate, su cui si possono fare comunicati senza spendere e senza farsi venire idee su come risolvere i problemi veri. Acciocché Trevi possa fare la faccia di chi ce l’aveva detto, e si senta perciò figo senza neanche prendersi il disturbo d’andare a Cannes.

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