Testa di serieLa sfida Federer-Djokovic al Roland Garros vista dalla cabina di commento

Federico Ferrero in “Parlare al silenzio” (Add editore) racconta la sua esperienza da giornalista durante quella che è stata definita «la mamma di tutte le partite»

di Matthias David, da Unsplash

Giugno 2011. Il baretto dei telecronisti al Roland Garros, prima di una ristrutturazione che l’ha reso più chic di una pasticceria di Kayser aperta in centro città, di bello aveva solo una cosa, come quei monolocali con il prezzo gonfiato perché piazzati in zone strategiche: la posizione. Aprivi una finestrella a lato del bancone e ti ritrovavi, di botto, all’angolo tra la tribuna sud e quella ovest, investito dagli «oooooooooooh!», i «ouaaaaaaaaaaaaaais!», gli «alleeeeeeeeeeeeeeeez!» e pure dagli «shhhhhhhhhhhhhhhh!» della gente che, a Parigi, è tendenzialmente acculturata e il baccano durante il punto non lo sopporta proprio. Una finestrella sull’emozione dello sport dal vivo. Quel bar era un porto di mare. Per Christian, restauratore nella Loira di mestiere ma barista in uno Slam per due settimane l’anno nonostante, del tennis non gliene fregasse nulla, io non ero un giornalista italiano ma «espresso ristretto»: ne chiedevo in continuazione, nella stupida convinzione che la macchinetta dovesse solo prendere il giro giusto per restituirmi qualcosa buono.

Quel pomeriggio stava per iniziare la semifinale tra Roger Federer e Novak Djokovic: il numero uno assoluto per i fan e il numero uno stagionale, un tritacarne tennistico che aveva semplicemente deciso di non perdere più una partita. Quarantuno match vinti su quarantuno. Al bancone c’era John McEnroe, con il suo gessato grigio e, ai piedi, le All Star di tela con trama militare. Sosteneva, alzando il volume del suo slang newyorchese, che il torneo femminile andasse preso e fatto giocare nel circolo accanto, il Jean Bouin, perché le ragazze non si sa mai quando finiscono: anche se una è in vantaggio 6-1 5-1, può essere preda di una crisi di nervi e buttare via tutto. Argomento spinoso… Probabilmente Martina Navratilova, lì accanto, faceva finta di non sentire.

Gli inglesi di Eurosport, a differenza degli americani da cui abbiamo importato la discutibile moda dei talent, non hanno mai scelto le spalle tecniche in base al numero di Slam vinti e quindi avevano portato a Parigi Jo Durie che, come tutti i suoi colleghi, durante la diretta rideva. In continuazione: doppio fallo e rideva. Ace, e rideva. Nastro fortunato e si sbellicava. Agli inglesi, il tennis faceva ridere. Una volta era bastato dirle che la traduzione del cognome di Flavio Cipolla fosse onion e che, siccome avrebbe dovuto giocare contro Rafa al primo turno, «We just hope that Cipolla is gonna make Nadal cry», boato, come alla più fulminante delle battute di Ricky Gervais.

Federer contro Djokovic iniziò sul tardi e la stavo commentando in diretta su Eurosport. Le cabine, negli stadi, spesso non sono isolate acusticamente; a ogni bel punto, ci arrivava Jo Durie in cuffia da una parte, dall’altra la logorrea sfiancante di Manolo, il telecronista storico della televisione spagnola. Per due set, Federer giocò come si fa sulle nuvolette. Appena toccava la palla con il dritto, era punto. L’altro cercava di evitarlo, ma Roger volava sul campo. La gente era esaltata, Djokovic prendeva ganci al mento da rimanere stesi sul rosso del campo centrale ma, figurarsi, per lui era una sfida ancora più eccitante. L’ennesima contro l’avversario – e contro il mondo – perché, salvo il suo box e i serbi a casa, non c’era quasi nessuno che desiderasse una sua vittoria.

Quando Djokovic, di rabbia, strappò via il terzo set, c’era aria di cambio in testa al match. Il sole era sparito dietro le tribune, iniziava a fare fresco. Umido. La cabina sembrava essersi ristretta, ancora più scomoda del solito, il vetro era mezzo appannato. L’inizio del quarto set fu un festival di punti vincenti. Federer era il miglior Federer mai visto sulla terra battuta e – ora fa ridere a pensarlo, sì – stava per compiere trent’anni che, per il tennis dei tempi, era ritenuto il limite massimo oltre il quale la carriera di un campione virava al tramonto. Sampras aveva mollato intorno ai trenta, così Edberg e Becker. Agassi, ritirato a trentasei, era ritenuto un animale preistorico. Insomma, il sentimento comune era che quell’ultimo Federer ormai prossimo alla pensione potesse, al più, calare qualche jolly dal braccio fatato ma che, sulla distanza dei cinque set, per di più sulla terra battuta, non fosse più competitivo ai massimi livelli. Del resto, la sua collezione di Slam era ferma al titolo australiano del 2010.

Djokovic sbuffava, soffiava dal naso, imprecava. La gente non sapeva più come manifestare il proprio entusiasmo, iniziò a battere con i piedi sulle tribune come ai concerti allo stadio. In cabina, tremava tutto. Qualcuno prese a seguire gli scambi alzandosi e io pure, ormai, lo sgabello non riuscivo più a usarlo. Per segnarmi i punti appiccicavo il foglio alla parete che confinava con Jo Durie, che non sentivo più ridere perché sopraffatta dal rumore degli spettatori. Federer andò sotto di un break dopo un game eterno. Lo recuperò. Sei pari. Altra ovazione con il giudice di sedia che non ce la faceva più a domare la bolgia. Sul match point, Federer alzò la palla sparandola al centro della t, l’incrocio di righe che divide i rettangoli del servizio. Ace. Invece di rotolarsi per terra – noblesse oblige – tirò su un ditino che aveva tutto il significato del mondo: mi avevate dato per morto, eh?

A me saltò una corda vocale e il bruciore mi sarebbe passato dopo una settimana. Gianni Ocleppo, la spalla tecnica, in piedi come me, la impacchettò come «la mamma di tutte le partite» e la trovai una sintesi perfetta.

Non so quanto fu esaltante quella di Federer, ma l’uscita dal campo di tutti noi che avevamo raccontato, ciascuno al suo Paese, la partita, anzi la Partita, agli appassionati di tennis pareva il defluire della folla dopo un concerto con Beatles, Rolling Stones e Led Zeppelin, tutti sullo stesso palco. Nel corridoio delle cabine gli svizzeri si stavano abbracciando e attorcigliando braccia, colli, facce, cavi del microfono. McEnroe – incredibile a dirsi – non aveva parole. Salvo «Wow, that was something», l’unica cosa che gli sentii dire prima di venire risucchiato dalla calca dei transumanti verso l’uscita. Faceva un freddo dannato: come avevano potuto giocare in maglietta fino alla fine? Mi feci trasportare dal gregge degli amanti del tennis. Quando uscii dalla porta Suzanne Lenglen, per un attimo girai gli occhi verso lo stadio e mi sentii attraversare la spina dorsale da una scossa. Una parte di me sarebbe voluta tornare indietro.

Tratto da “Parlare al silenzio” (add editore), di Federico Ferrero, pp. 156, 18 €

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