L’impegno di Gastronomika nell’affrontare le questioni del mondo enogastronomico assieme ai giovani professionisti che ne fanno parte, prendendosi il tempo per conoscerli, ascoltare i loro suggerimenti e le loro riflessioni, continua e supera anche i limiti geografici.
Siamo volati in Sicilia, a Villa Riso di Mondello, ma è stato come essere in tutto il mondo, sia perché quelli affrontati al tavolo dell’hackathon dedicato alla ristorazione sono temi universali, sia per le tante culture, esperienze e ispirazioni culinarie qui portate dai partecipanti alla discussione.
Il titolo del tavolo, “Come la tradizione lascia il posto alle nuove idee contemporanee?”, detta una linea guida e imposta un punto di partenza per il dibattito, e, come prevedibile, e come fortunatamente accaduto, da questo si sono dipanati tanti e diversi approfondimenti, in una conversazione allegra, vivace e arricchente.
Impossibile non partire proprio da quella parola, “tradizione”, ormai un po’ lisa per quanto citata ogni volta che si parla di qualcosa attinente alla cucina (che sia una ricetta, che sia la pubblicità di un prodotto, che sia la presentazione di un locale, che sia una candidatura a patrimonio immateriale Unesco…) e ancor più innominabile quando associata all’altra sua compare, “innovazione”, in una locuzione ormai vuota di significato per quanto abusata. Già si intuisce che quello che stiamo affrontando è un problema di comunicazione, perché, al di là delle noie lessicali, toccando questo tema una questione di sostanza di cui discutere c’è.
L’utilizzo da parte di tanti di quella specifica terminologia viene ricondotta all’esigenza di mettersi a tutti i costi in quella casella per essere riconoscibili, mentre non è affatto necessario, anzi è vero il contrario: alla base è importante che ci sia lo studio e in un certo senso l’elaborazione del passato, ma questo va poi lasciato alle spalle. La comunicazione deve spogliarsi di luoghi comuni che appiattiscono e spersonalizzano, e concentrarsi sull’identità: chi siamo, qual è la nostra insegna, cosa rappresentiamo, come lo facciamo. Una comunicazione di contenuto identitario non ha bisogno di altre definizioni, e rende il proprio messaggio riconoscibile tra tutti gli altri. Dunque occorre lasciare posto a una narrativa corretta su cosa significhi avere alle spalle una storia gastronomica, per quanto recente (Alberto Grandi docet), per poi concentrarsi sull’oggi e sul domani dell’offerta gastronomica.
Affinché il messaggio sia credibile è fondamentale che sia autentico e onesto, con sé stessi in primis, così come con i clienti e con i collaboratori, e questo si può ottenere solo sentendosi a proprio agio in quello che si fa.
Certo, il passato non va dimenticato e tanto meno rinnegato. Costruirlo ha avuto un costo, «tutti dobbiamo qualcosa al passato, è il nostro investimento, ma questo deve diventare il guadagno del futuro, non solo in termini economici, ma anche di valore, che stiamo trasferendo a chi ci sta consumando», aggiungendo un plus che è il frutto della storia, delle esperienze, dei gusti e delle sperimentazioni di chi sta proponendo quel determinato piatto.
E a proposito di costo, profitto, valore, non si può prescindere da una considerazione circa la sostenibilità (termine che in realtà suscita più domande che risposte, per restare in tema di abusi lessicali) del proprio agire, secondo le tre macro-direttrici che guidano ogni scelta d’impresa (economica, sociale e ambientale).
Nel caso della ristorazione in particolare ci si sofferma sull’importanza di questo tema a proposito di ingredienti. I giovani al tavolo non hanno dubbi su cosa preferiscono offrire ai propri clienti tra una ricetta “tradizionale” cucinata, ad esempio, con vegetali che vengono da chissà dove e una che si basa sullo studio di un prodotto locale, da esaltare al meglio, con i giusti abbinamenti e nella sua giusta stagione. Questi ristoratori amano scrivere in menu «secondo disponibilità», si chiedono come sarebbe bello non scriverlo proprio, il menu, lasciare completamente libera la creatività dello chef, rielaborare le proprie stesse ricette divenute un classico del locale, ma occorre trovare un punto di incontro con i clienti, spesso così affezionati a determinati piatti che protestano se scompaiono dalle opzioni proposte.
C’è infatti anche il cliente che tutti i dodici mesi dell’anno cerca il piatto che tanto gli è piaciuto, senza chiedersi come e se sia possibile replicare ogni ricetta, nello stesso identico modo, ogni settimana dell’anno, se la preparazione che ha amato aveva quel sapore proprio perché è stata fatta con prodotti freschi e locali. Allora si prova con le rielaborazioni stagionali, con variazioni sul tema, e soprattutto bisogna parlare al cliente, raccontare quali ingredienti si utilizzano e perché, aiutandolo a capire che la differenza nella scelta ad esempio delle verdure si riflette nel sapore del piatto, e proponendogli di provare qualcosa di diverso che, essendogli stato spiegato, può incuriosirlo anziché respingerlo. Raccontare queste differenze può aiutare il cliente a comprendere anche perché il prezzo che pagherà sarà più alto, e che una filosofia di cucina basata su scelte etiche e di qualità implicano anche una giusta remunerazione al personale, oltre che ai fornitori e ai produttori.
Purtroppo tutti i partecipanti al tavolo osservano che nelle famiglie ci si allontana sempre di più dalla “cultura” del mangiar bene, a casa si cucina molto meno, si fa la spesa in fretta e senza attenzione, e dunque spetta a chi opera in questo settore impegnarsi per trasmettere questi concetti ai giovanissimi, consumatori alle prime armi che non hanno idea di cosa significhi parlare di ingrediente di qualità e piuttosto fanno file infinite per cibarsi di panini l’uno clone dell’altro a poco prezzo.
D’altronde chi sceglie di fare ristorazione con impegno non lo fa solo per profitto, cerca qualcosa di più: certo il guadagno è importante, ma soprattutto in questi giovani si svela oltre che la passione e l’amore per ciò che fanno anche il desiderio di lasciare un segno, e dunque non è un peso, ma anzi un’aspirazione, quella di impegnarsi in una comunicazione che sia anche “culturale”, educare le nuove generazioni a mangiare bene, perché si formano i clienti per la ristorazione futura. Preparare una domanda istruita sulla qualità e insegnare a mangiare meno e meglio aiuterà di riflesso il mondo della ristorazione futura a focalizzarsi su un’offerta di qualità.