Oro o mai piùLa longevità olimpica di Ni Xialian

A sessantuno anni la leggenda del tennis da tavolo sfida il tempo. Dopo il primo posto ai Campionati mondiali con la Cina, oggi si prepara ad affrontare la sesta olimpiade con il Lussemburgo, al riparo dalla pressione che pesa sugli atleti della Repubblica Popolare cinese

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Quando ha vinto le sue prime due medaglie d’oro in una competizione di alto livello era il 1983. La guerra fredda non era finita, il muro di Berlino era ancora in piedi, le notti magiche di Italia ’90 erano ancora lontane. E la sua Cina era ancora un peso leggero dello sport mondiale, anche se la stagione di riforma e apertura da poco lanciata dal «piccolo timoniere» Deng Xiaoping faceva sperare in un futuro migliore. Sabato 27 luglio, quando è in programma l’avvio del programma della competizione di tennis tavolo dei Giochi Olimpici di Parigi 2024, lei sarà ancora una volta lì, con la racchetta in mano. Anche se i colori sulla sua divisa non sono più quelli di quarantuno anni fa, ma quelli di Lussemburgo.

La protagonista di questa storia si chiama Ni Xialian, sessantuno anni, ed è la prova vivente che non è mai troppo tardi per seguire i propri sogni in campo sportivo. Neppure quando si tratta di competizione a cinque cerchi. Ni, nata a Shanghai nel 1963, gioca a tennis tavolo sin da giovanissima. D’altronde, è considerato lo sport nazionale in Cina. Quando ancora le altre discipline non erano molto praticate, i giocatori cinesi di «ping pong» erano già temuti in tutto il mondo. Ni compresa, visto che nel 1983 vince i campionati del mondo di tennis tavolo.

Nel 1989, l’anno della strage di piazza Tiananmen, l’allora ventiseienne si trasferisce in Europa. Prima in Germania, poi definitivamente in Lussemburgo, nel 1991. Suo marito, Tommy Danielsson, diventa il suo allenatore. E i risultati si vedono, visto che nel 2008 si presenta alle Olimpiadi con la nazionale di Lussemburgo. Luogo della competizione? Pechino, ovviamente, per uno dei tanti giri del destino che contraddistinguono la storia e le storie dello sport. Nell’antica madrepatria raggiunge il terzo turno del singolo femminile, stesso risultato del 2016 a Rio de Janeiro. A Londra 2012 si ferma al secondo turno e si qualifica nuovamente per Tokyo 2020, diventando la più anziana olimpionica di sempre nel tennis tavolo coi suoi cinquantotto anni. Record da aggiornare a Parigi 2024, quando Ni gareggia coi suoi sessantuno anni. Nel frattempo, ha peraltro fatto l’impresa di vincere la medaglia di bronzo nel doppio ai campionati del mondo del 2021, alla sua ventitreesima apparizione, in coppia con Sarah de Nutte.

A rendere ancora più sorprendente la sua vicenda, è il fatto che Ni non è una giocatrice a tempo pieno, visto che si dedica anche ad altre attività. «Per via dell’età, non posso allenarmi come quando ero giovane. Per me la cosa più importante è evitare di infortunarmi o ammalarmi», ha raccontato al sito dei Giochi Olimpici di Parigi. «Anche il modo in cui faccio riposare il mio corpo è molto importante. Vado spesso in palestra per mantenere la mia forza fisica e vado anche da un fisioterapista per facilitare il recupero». Ni collega la sua longevità sportiva all’applicazione di un detto cinese: «Vivi fino alla vecchiaia, impara fino alla vecchiaia». Insomma, non si è mai troppo vecchi per imparare e mettersi alla prova. Lei ne dà persino una sua versione, che le serve come motivazione per proseguire: «Sarò sempre più giovane oggi di domani».

Probabilmente Ni non ambisce alla vittoria di una medaglia a Parigi, ma la sua stessa presenza è fonte di ispirazione per tanti atleti di tennis tavolo. E sembra dimostrare che c’è sempre tempo per una nuova sfida. Una concezione che forse non è però condivisa da tutti gli atleti della nutrita squadra olimpionica del suo Paese d’origine. Per la Cina, d’altronde, la vittoria è diventata quasi l’unica cosa che conta. Nello sport come in altri campi. All’ascesa economica, politica e diplomatica, Pechino punta da tempo ad aggiungere un’ascesa sportiva. Riuscendoci. Tutto ha origine una ventina di anni fa, prima dei Giochi Olimpici di Pechino del 2008, quelli che nella narrativa cinese riportano il colosso asiatico al centro della scena globale.

In vista di quell’appuntamento cruciale, crocevia tra la Cina di un tempo e quella di oggi, il Partito comunista mette a punto il cosiddetto «Progetto 119», dal numero di medaglie disponibili in alcune discipline sportive messe nel mirino delle autorità. Il programma fu messo a punto dopo le Olimpiadi del 2000 a Sydney, quando appunto erano in palio centodiciannove medaglie tra atletica leggera, nuoto, canottaggio, canoa/kayak e vela.

In quell’edizione, gli atleti cinesi avevano conquistato solo una medaglia. L’obiettivo era quello di insistere nell’addestramento dei giovani atleti su quelle discipline, insieme al perfezionamento di quelle in cui tradizionalmente le nazioni occidentali erano più attaccabili. Risultato: ai Giochi Olimpici di casa la Cina arriva in testa al medagliere per la prima volta nella sua storia e da lì in poi non si schioda più dal podio. Dopo un secondo posto a Londra 2012 con trentotto ori, a Rio 2016 arriva un deludente terzo posto con «solo» ventisei ori. A Tokyo, la Cina è arrivata a un soffio dagli Stati Uniti, con trentotto medaglie d’oro contro le trentanove americane.

In Giappone gli atleti cinesi hanno conquistato ottantotto medaglie totali, capeggiando la classifica per tutte e due le settimane della manifestazione, subendo però il sorpasso proprio all’ultimo giorno. Questo perché nelle ultime giornate si assegnano le medaglie degli sport di squadra, quelli dove tradizionalmente la Cina fa più fatica e gli Stati Uniti eccellono.

Vari episodi dell’ultima edizione chiariscono che le Olimpiadi per la Cina (e per gli atleti cinesi) non sono solo una questione sportiva. Zhang Yufei, dopo aver conquistato l’oro ai 200 farfalla, ha dichiarato di aver sentito il «potere della Cina» che la sosteneva negli ultimi cinquanta metri verso la vittoria. Bao Shanju e Zhong Tianshi si sono presentate sul podio dopo aver vinto nel ciclismo su pista a squadre con delle spillette di Mao Zedong.

Dall’altra parte, gli utenti cinesi hanno dato sfogo al nazionalismo prendendo di mira gli «sconfitti», vale a dire gli atleti che hanno conquistato «solo» una medaglia d’argento in discipline nelle quali la Cina era in partenza favorita. Per esempio Liu Shiwen e Xu Xin, sconfitti dal Giappone nella finale del doppio misto di tennis tavolo. O soprattutto Li Junhui e Liu Yuchen, che hanno perso contro la coppia taiwanese nella finale del badminton. La pressione sugli atleti è insomma sempre molto alta.

Addirittura, al termine dell’edizione di tre anni fa, sulla rete cinese era circolata una versione alternativa del medagliere che vedeva la Cina prima con quarantadue ori. Com’è possibile? Semplice, aggiungendo al conto dei successi della Cina continentale quelli di Hong Kong e Taiwan. A Tokyo, l’ex colonia britannica ha conquistato un oro, due argenti e tre bronzi. Taipei invece è stata protagonista della migliore spedizione olimpica della sua storia con un totale di dodici medaglie (due ori, quattro argenti e sei bronzi). Medagliere non adottato dai media ufficiali cinesi, anche perché al di là delle rivendicazioni politiche non si può negare che Hong Kong e Taiwan abbiano due federazioni sportive separate da quella della Repubblica Popolare. Ma anche questo è un episodio che la dice lunga come la Cina ambisca a operare il sorpasso e diventare leader del medagliere olimpico.

«Vivi fino alla vecchiaia, impara fino alla vecchiaia», recita il motto cinese che ispira Ni Xialian. Forse, però, nella Repubblica Popolare di oggi si aggiungerebbe una postilla: «Competi fino alla vecchiaia, ma solo se puoi vincere».

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