L’inventrice dei paparazziIl documentario su Liz Taylor è una buona scusa per rivivere la figaggine del 900

I nastri inediti delle conversazioni della celebre attrice col giornalista Richard Meryman sono gustosi (in Italia li ascolteremo e vedremo su Sky e Now in inverno), perché coltivano l’illusione di spiarla nel privato ben più di quanto facessero fotografi e rotocalchi

LaPresse

«Non ero un granché bella, ma forse a causa della mia vita privata evocavo suggestioni sconvenienti: ma non c’era niente di sconveniente in me, né di immorale». Quando comincia a parlare con Richard Meryman, Elizabeth Taylor ha trentadue anni, due figli, quattro divorzi: è l’anno in cui sposa il suo quinto marito, un certo Richard Burton.

La principale differenza tra il secolo scorso e questo non è che non c’è più una Liz Taylor che chiunque conosca e di cui chiunque sia curioso: la principale differenza è che in questo secolo i lettori sarebbero capacissimi di chiedermi perché cominci un articolo su Liz Taylor parlando dei suoi mariti invece che dei suoi film; nel secolo scorso avevamo tutti abbastanza senso del ridicolo da capire perché fosse un’obiezione insensata.

Comunque. Quando inizia a parlare con Meryman – probabilmente scelto perché era quello che, due anni prima, aveva fatto l’ultima intervista a Marilyn Monroe – Liz Taylor ha già fatto quasi tutto. “Venere in visone” e “Improvvisamente, l’estate scorsa”, “La gatta sul tetto che scotta” e “Il gigante”. Soprattutto, ha già fatto “Cleopatra”, il film durante il quale ha conosciuto Richard Burton.

Non ha ancora fatto “Chi ha paura di Virginia Woolf?”, insuperato capolavoro nonché picco della coppia Lizendick e delle sue dinamiche morbose: quelle in cui lui era il grande attore e lei era la diva. Quello sul set del quale arriva Marlene Dietrich e le dice «Tesoro, sono tutti fantastici! Hai molto coraggio a dividere il set con dei veri attori», e quella, raccontano le biografie, risponde: «Lo sono, sì. E, quando torno a casa, Marlene, Richard e io scopiamo come conigli».

C’è un filmato della Bbc del 1967 in cui un intervistatore chiede a Burton come mai abbia mollato il teatro e si sia svenduto al cinema, Taylor insorge chiedendogli come si permetta, e Burton interviene dicendole di darsi una calmata: è forse il momento in cui più abbiamo modo di vederli nella loro intimità, più delle foto che scattavano i paparazzi a Ischia durante le pause di lavorazione di “Cleopatra”.

(In quella stessa intervista, Burton – che in quel momento ha quarantadue anni: morirà a cinquantanove – dice che bisogna decidere se continuare a recitare o mettersi a fare altro, e che a lui sembra poco dignitosa l’idea di essere ancora lì, a settant’anni, a mandare a memoria le parole degli altri, e io non credo che nessuno abbia avuto così ragione a proposito d’attori mai, o almeno mai da quando venivano sepolti in terra sconsacrata).

Ogni volta che penso a Lizendick penso alla faccia di Carlo Vanzina, quella d’un gentiluomo che pensa tu stia dicendo una cazzata da prenderti a schiaffi ma è il tipo che cerca di fartelo notare garbatamente, una volta in cui gli dissi che non c’era alcuna differenza tra Taylor e Burton e le coppie da “Grande Fratello”. Avevo torto, sì: chiunque abbia visto “Chi ha paura di Virginia Woolf?” lo sa. Ma avevo ragione.

Perché il motivo per cui qualunque saggio sulla cultura della celebrità identifica con quei due il momento in cui è cambiato tutto non è che prima di loro il cinema non fosse cinema e gli attori non fossero famosi: è perché, nell’incantesimo di quei due, non c’era capolavoro della cinematografia che risultasse più interessante del loro buco della serratura. Anche Vivien Leigh e Laurence Olivier ebbero un matrimonio interessantissimo e pieno di corna e di follia, ma vuoi mettere “Via col vento”?

I nastri delle conversazioni di Taylor con Meryman sono ora un documentario, si è visto a Cannes, domani va in onda sulla Hbo e in inverno arriverà in Italia (su Sky e Now), e alla riflessione sui documentari sulle dive degli anni in cui non si filmava tutto va forse aggiunto questo modulo qui: la voce di come Liz trentaduenne raccontava sé stessa, e le immagini di repertorio. (In coda ci sono i nastri di Dominick Dunne che la intervista nel 1985, l’anno dopo la morte di Richard Burton).

Non importa che dica qualcosa di rilevante: il modo in cui si racconta non per venire stampata o riprodotta, ma per spiegarsi a uno che deve scrivere una sua biografia (che non si farà), quel modo ci dà l’illusione di spiarla nel privato ben più di quanto facessero i paparazzi a Ischia (o altrove).

Quando Liz dice che lei ha sempre pagato per i suoi errori, ma «so che il conto non finirò mai di pagarlo», mi rendo conto che in quel momento mancano ancora cinque anni a “My way”. Mancano cinque anni a Frank Sinatra che incide quel bilancio della vita d’un uomo che «rimpianti, qualcuno ne ho avuto, ma poi troppo pochi per citarli», eppure quella di Liz sembra una prova generale di quel testo.

“Elizabeth Taylor: The Lost Tapes” dura un’ora e tre quarti, e per la prima ora sì, tutto molto interessante: la bambina così bella che la prima volta che la mettono davanti alla macchina da presa le chiedono di togliersi il rimmel, ma quelle sono proprio le sue ciglia al naturale; la verginità che non perde per i primi tre giorni di viaggio di nozze; George Stevens che sul set del “Gigante” le dice che non sarà mai una vera attrice perché è troppo preoccupata di risultare belloccia; James Dean che la sera si confida e la mattina fa finta di non conoscerla perché si vergogna. Tutto molto interessante, ma Richard quando arriva?

L’amica che dice che una volta le ha chiesto perché li sposasse tutti, perché non facesse l’amante, e lei ha risposto «Voglio essere una sposa», e poi ha incontrato l’amore della sua vita. Solo che non sappiamo che anno è quando parla l’amica, secondo cui l’amore della vita è Mike Todd. Che in effetti morì, il che contribuisce a renderti leggendario nella vita sentimentale di chi resta. Oltretutto morì in un incidente aereo, il John Kennedy jr. degli anni Cinquanta. Liz non era con lui perché aveva il raffreddore.

La vedova tornò a girare “La gatta sul tetto che scotta” («mi sembrava che tornare a lavorare fosse l’unico modo di conservare la mia sanità mentale»), e si mise con un amico del defunto, Eddie Fisher, incidentalmente sposato con Debbie Reynolds, già damigella alle nozze di Liz e Mike; la figlia, Carrie Fisher, molti anni dopo disse che il padre doveva consolare Liz della morte di Mike, e la consolò col suo pene. Come i lettori certamente sanno, “La gatta sul tetto che scotta” è la storia d’un matrimonio su cui incombe un morto, che è andato a letto con lei ma era innamorato di lui. Tutto molto interessante, ma Richard?

No, sono disonesta. Quello che il documentario dedica a Liz e Mike non è tempo perduto: ci sono alcuni secondi sensazionali di Liz che parla del suo grande amore con Mike e dell’anello di fidanzamento da «ventinove carati e sette ottavi, perché trenta carati sarebbe stato volgare». Lo fa vedere alla telecamera e aggiunge, non avendo torto, che il diamante sembra una pista di pattinaggio.

E altri di un intervistatore pirla che le dice «una volta hai detto che eri una bambina nel corpo di una donna», e lei «sì, avevo quindici anni», e il pirla insiste, «volevo sapere se da quando hai sposato Mike sei maturata», e lei «Lo spero, altrimenti sarei ritardata».

Comunque: Mike muore, Eddie la consola col suo pene, Liz lo sposa tre ore dopo l’ufficializzazione del divorzio da Debbie. Nei nastri di Meryman, Taylor parla dell’animosità del pubblico convinto che Fisher e Reynolds fossero felici, ma la cosa più stupenda è una foto sullo schermo. Donne che protestano contro la sfasciafamiglie, con cartelli in cui le dicono di smetterla di fare il carroattrezzi che porta via le promesse nuziali altrui. L’Oscar per “Improvvisamente, l’estate scorsa” non glielo danno perché è una sfasciafamiglie? Però glielo danno l’anno dopo, per “Venere in visone”. E mancano ancora due anni a Richard.

«Quando si trattava d’affari, era spietata». Lo dice il suo assistente, rievocando il milione di dollari più il dieci per cento degli incassi che ottenne per “Cleopatra”. Pochi minuti dopo, la voce di Burton dice che non sapeva cosa scrivessero di lei perché «non leggo le pagine degli spettacoli», ma non era di buon umore perché per quel film prendeva trecentomila dollari, e lei un milione. Le storie d’amore tormentato le riconosci in un modo preciso: i pantaloni li portano tutti e due.

La lavorazione del film fu, come certo sanno i lettori, un disastro: un primo tentativo di girare a Londra, funestato dal maltempo; una polmonite con cui la Taylor stava per morire (Liz Taylor è la classica che sta sempre per morire e poi muoiono sempre gli altri, d’altra parte: lei la madre Terra e noi qui coi nostri fallimenti); il regista cambiato, i costi lievitati, i due anni e mezzo per portarlo a termine. Però: Lizendick.

A un certo punto George Hamilton dice che la parola «paparazzi» nasce per identificare i fotografi che inseguivano la Taylor e Burton, e facevano una cosa diversa da quella che avevano fatto i fotografi fino ad allora: «Non erano più in cerca del glamour, ma della distruzione del glamour» (lo so: pensavate avesse cominciato TikTok).

«Richard è arrivato sul set, e non ho mai visto un gentiluomo con dei postumi di sbronza così enormi». Lo dice ridacchiando Taylor nei nastri di Meryman. C’è anche una registrazione di Burton che dice che cercò di farseli passare col caffè, ma era così sbronzo che non riusciva a portarsi la tazza alla bocca e quindi le chiese di aiutarlo.

In “Furious Love”, libro sulla loro storia di qualche tempo fa, c’era un virgolettato stupendo di Liz che diceva che, nelle pause di “Cleopatra”, lei e Richard, come afrodisiaco, componevano parole zozze allo Scarabeo: «Quando come preliminare ti basta lo Scarabeo, baby, quello è amore». Certo, è una storia d’amore di cui si parla da un secolo perché dopo lo Scarabeo lei torna da Eddie, riprovano, poi divorziano, poi lei sposa Richard, poi divorziano, poi si risposano, poi di nuovo divorziano e poi lui, sposato con un’altra, prima di morire le scrive una lettera struggente promettendole che in qualunque momento lei gli dica che ha bisogno di lui correrà da lei.

È però difficile concentrarsi sulla storia d’amore, perché le storie d’amore sono proprio alla portata di chiunque, attrici, cameriere, astronaute, professoresse democratiche, microcelebrità da telecamera del telefono, massaie, imperatrici.

Invece l’odio e il disprezzo che si vedono negli occhi di quei due quando i paparazzi si cibano di loro ovunque, in vacanza e sul set, fuori dai ristoranti e dentro le automobili, in Italia e in Inghilterra, a teatro e in gioielleria, quello slittamento di modalità comunicative e sociali lì lo vedi solo in loro, è quello il loro lascito al mondo: non l’amore, non i film. Dominick Dunne le dice: una volta mi hai detto che non ricordavi un tempo in cui non eri famosa. Non è un’iperbole: all’altezza di Lassie, aveva dieci anni. Non ha mai vissuto come una persona normale. Quando leggo che forse Jennifer Lopez e Ben Affleck si lasciano perché lui non tollera il portato della fama di lei, penso che c’è uno che per un terzo della sua vita ha amato Liz Taylor: quella che era sempre stata famosa, quella che ha inventato i paparazzi.

«Mio caro, mio (ancora) marito, vorrei poter dire del mio amore per te, della mia paura, la mia delizia, il mio puro piacere animale di te (con te), la mia gelosia, il mio orgoglio, la mia rabbia». Lo scrive Liz a Dick nel 1974. Diceva Pessoa che tutte le lettere d’amore sono ridicole, non sarebbero lettere d’amore se non fossero ridicole. Dico io che le migliori sono lettere d’amore dissimulate.

Diceva il personaggio di Liz Taylor in “Chi ha paura di Virginia Woolf?” che i pantaloni in quella casa li portava lei, perché qualcuno doveva pur portarli. Dice Burton in un’intervista televisiva che il film è andato benissimo, «Liz ha vinto un Oscar, disse lui con amarezza, e io no, disse con altrettanta amarezza». Dice Liz a Meryman che «il solo fatto che ci amiamo è un rifugio». Facciamo che alcune lettere d’amore sono ridicole, e altre sono invidiabili.

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