Da medici a geometri del genio civile, a giornalisti e fisici, a operai e contadini. Dove e perché nasca la poesia in seno al singolo non è dato sapere. Non esistono parabole che sanciscano legittimazioni precostituite, ideologiche, ciò che conta è che nasca, con lo stupore autentico di chi guarda attraverso la parola. Massimiliano Coccia appartiene alla schiera dei poeti nati e vissuti dentro luoghi e linguaggi diversi, lontano dalla nicchia accademica oggi così dominante, invisibile per quanto dominante.
È un poeta vero, assetato, e questo suo libro, “Saprò dire il tuo nome”, si legge con una consapevolezza che diviene testo dopo testo marmorea: di poeti simili ne ha bisogno il nostro panorama, di voci libere, sincere. Un libro come una vena cava, dentro al quale confluiscono vite e panorami, una via Tiburtina che diventa consolatoria nella sua immobilità, o una casa popolare da eleggere a loculo di vite morte anche se vive.
Su tutto, regna una Roma estiva, cagnesca, cimiteriale, dove ogni anima che appare nel libro cerca il suo caro estinto, lo cerca, oppure tenta di fuggirgli. Come un padre non padre, una vedova venuta da chissà quale sud rimasta senza marito, senza più gesti di cortesia.
Coccia racconta con il catrame in bocca, un esploratore dentro i diversi ecosistemi di una città inconoscibile. Sempre lei. Roma. Solo lei. Perché vivere e crescere nella Capitale innalza e al tempo stesso intossica. Una poesia che non cerca la facile consolazione, anzi, semmai sprofonda con i piedi nelle estati torride che fanno liquido l’asfalto, un magma nero dove i testi sono le orme che rimangono.
Eppure. L’eco di una luce lontana. Di un esserci meno straziato. Sedersi/su questo niente/con te vicino/col giorno/tramortito/è un’amnistia. L’amore come unica forma di liberazione. E la poesia, come quella di Coccia, per darne testimonianza.