Stati DisunitiLo sdoganamento dei golpisti non promette niente di buono

Una spia dello spaventoso slittamento nella coscienza pubblica e anche dei freni inibitori di tanti commentatori, è rappresentato dalle lodi al coraggio e alla forza con cui Trump, in mezzo alle pallottole, ha incitato i suoi a «combattere», col pugno alzato e il volto rigato di sangue, scrive Francesco Cundari nella newsletter “La Linea”. Arriva tutte le mattine dal lunedì al venerdì più o meno alle sette

LaPresse

L’attentato di Butler, la reazione di Donald Trump sul palco e tutto quello che ne è seguito, com’era prevedibile, hanno avuto un impatto enorme sul dibattito pubblico, non solo negli Stati Uniti. Quello che forse era un po’ meno prevedibile era che la prima e più significativa conseguenza fosse non già una attenuazione della violenza e della radicalizzazione dello scontro politico in America, non tanto una svolta ecumenica e responsabile degli aspiranti golpisti del 6 gennaio 2021, quanto il loro sdoganamento globale, a cominciare dall’Italia.

Trump da giorni fa sapere di voler unire il paese e di avere riscritto completamente, in tal senso, il discorso per la convention di Milwaukee che sta per nominarlo ufficialmente candidato del partito repubblicano alla Casa Bianca. Intanto però ha nominato come candidato vice presidente J.D. Vance, un uomo capace di dichiarare apertamente, tra l’altro, che non si sarebbe mai comportato come Mike Pence, il vice presidente di Trump che nel 2020 ratificò, come suo dovere, la vittoria di Joe Biden, motivo per cui il 6 gennaio 2021 dovette essere scortato fuori dal congresso, per sfuggire agli assalitori che lo volevano, dichiaratamente, «impiccare».

Tutto questo è divenuto di colpo talmente normale, persino in Italia, da accompagnarsi senza alcun attrito con tanti discorsi sull’imminente abbandono della «retorica incendiaria» da parte di Trump e con gli aperti elogi di una parte crescente della politica e del giornalismo.

Come se persino i reiterati e persino esibiti preparativi per manipolare il voto e non riconoscerne l’esito in caso di sconfitta (per la seconda volta) fossero ormai diventati un’opzione politica rispettabile quanto ogni altra. Anzi, quasi che fossero i democratici a doversi scusare di denunciare simili propositi eversivi, e non chi si dichiara pronto a metterli in atto, secondo la propaganda orwelliana dei repubblicani subito sposata e portata a vette insuperabili di satira involontaria da Matteo Salvini, nel suo già celebre intervento al Tg1 su chi «semina parole di odio, di cattiveria, contro le destre, contro i fascisti, contro i razzisti».

Una spia di questo spaventoso slittamento nella coscienza pubblica, un tracollo degli argini democratici e anche dei freni inibitori di tanti commentatori, mi sembra ben rappresentato dal modo in cui molti hanno cantato le lodi del coraggio e della forza con cui Trump, in mezzo alle pallottole, ha incitato i suoi a «combattere», col pugno alzato e il volto rigato di sangue. Non so se in questa ondata di ammirazione per il «bel gesto», anche tra gli osservatori più insospettabili, abbia prevalso un riflesso «machista», come ha scritto ieri sulla Stampa Annalisa Cuzzocrea.

Bisognerebbe però riconoscere che la sua reazione, in quelle circostanze, non è affatto encomiabile. Dinanzi a un pazzo che spara sulla folla, un politico responsabile invita le persone alla calma, a mettersi al riparo e a lasciare che le forze dell’ordine facciano il loro dovere, non a «combattere». Penso a tante piazze italiane degli anni settanta sconvolte dalla violenza terroristica, ai dirigenti politici e sindacali che dal palco, come vediamo continuamente nei filmati di repertorio, gridano «state calmi», «fermi», «non raccogliete provocazioni». Altro che «combattete».

Quella è l’incitazione di chi, consapevolmente o meno, si rivolge ai propri sostenitori come il leader di una milizia che si considera perseguitata dal regime, ed è dunque costretta a difendersi e farsi giustizia da sé. Il fatto che tutto questo susciti solo elogi e ammirazione, persino in Italia, persino sulla stampa e tra gli intellettuali cosiddetti liberali, obiettivamente, non promette niente di buono. Né per gli americani, né per noi.

Questo è un estratto di “La Linea” la newsletter de Linkiesta curata da Francesco Cundari per orientarsi nel gran guazzabuglio della politica e della vita, tutte le mattine – dal lunedì al venerdì – alle sette. Più o meno. Qui per iscriversi.

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