Che cosa succede a Gaza e, più in generale, nel teatro mediorientale? Chiaramente, siamo arrivati a una fase meno specificamente bellica e più genericamente politica. Le azioni militari sono specifiche e mirate alla liberazione di ostaggi, alla distruzione di bersagli, al gioco del gatto col topo in cui Tsahal lascia che i miliziani di Hamas tornino nelle loro zone operative per colpirli e distruggere le infrastrutture e i depositi che restano. Ormai da marzo-aprile l’intensità degli attacchi israeliani è fortemente diminuita: acquisito il controllo diretto su gran parte della Striscia, le forze armate israeliane hanno adottato un approccio differente, riducendo grandemente la loro presenza in gran parte dell’area.
Come si vede nella mappa qui sotto (elaborata dall’esperto Osint @Majakovsk), quasi tutta la Striscia è in verde chiaro (controllo israeliano a bassa intensità), mentre il “corridoio Philadelphia”, ossia la zona al confine con l’Egitto, è sotto stretto controllo israeliano, mentre in rosso (controllo Hamas) sono solo la zona sud di Khan Younis e il campo di Nuseirah, nelle quali la densità di profughi è tale che entrarvi direttamente provocherebbe una strage, ma dove gli israeliani colpiscono quando e come vogliono.
A proposito di civili: nella prima fase le vittime sono state indubbiamente tantissime, ma è francamente difficile immaginare in che modo le Idf avrebbero potuto prendere il controllo di una zona così densamente abitata e irta di nascondigli e fortificazioni usando una potenza di fuoco inferiore. Anzi, gli esperti militari sono complessivamente concordi nel ritenere che gli israeliani abbiano davvero fatto tutto il possibile per ridurre il numero di vittime civili in un’operazione del genere. Che sia politicamente opportuno o moralmente lecito condurre operazioni di questo tipo, che producono inevitabilmente almeno tutte queste vittime, è ovviamente un altro discorso.
A fronte di questa riduzione dell’intensità a Gaza, l’allargamento del conflitto resta una possibilità; i continui incrementi di pressione da parte di Israele, comunque, non sembrano aver suscitato le risposte annunciate. In pratica, finora il governo israeliano è andato a vedere ogni bluff e ha vinto ogni mano: l’Iran ha sostanzialmente dovuto ingoiare l’umiliante eliminazione di Hanyeh in piena Teheran; Hezbollah stava per scatenare un lancio di razzi di grandi proporzioni ma il tentativo è stato stroncato da un micidiale attacco preventivo, al termine del quale i fascioislamici libanesi hanno potuto fare ben poco. In generale, sembra che Israele abbia degradato non poco la potenza di fuoco e la struttura di comando anche di Hezbollah.
Inoltre i vari paesi arabi hanno mutato di poco o nulla le loro posizioni nei confronti di Israele, sostanzialmente confermando che tra lo stato ebraico e Hamas le loro preferenze vanno nettamente al primo. Di fatto, si sta aspettando la fine delle ostilità, quale che sia, per ricominciare il processo di avvicinamento, come se nulla fosse. Gli Stati Uniti e il resto dell’Occidente, al di là di qualche mossetta per seguire i tumultuanti propal, sono rimasti saldamente e concretamente vicini a Israele. La prova più chiara in questo senso è la piattaforma del Partito democratico per le elezioni presidenziali, in cui l’appoggio a Israele è totale, senza nessuna concessione ai filopalestinesi.
Il risultato è che Hamas è all’angolo: dopo le immense perdite subite, lo smantellamento delle infrastrutture, la perdita del controllo del territorio, il massacro dei vertici, il cessate il fuoco ormai si negozia solo a condizioni accettabili per Israele, che di fatto escludono il ritorno della Striscia sotto il loro controllo. D’altra parte, restituire gli ostaggi li priverebbe dell’unica moneta di scambio; di conseguenza, possono scegliere solo se accettare la sconfitta o continuare a prenderle, senza nessuna possibilità attendibile che l’avversario si stanchi.
Ma, per il momento, il vero sconfitto è Fatah. Abu Mazen aveva l’occasione d’oro di presentarsi come il vero leader palestinese, appoggiato da tutto il mondo arabo e capace di dialogare con Israele, liberandosi di Hamas e riavviando un processo di pace in Cisgiordania che avrebbe tagliato le gambe ai coloni e fatto arrivare fiumi di quattrini e invece si è sostanzialmente spalmato sulle posizioni dei tagliagole, con il risultato che ora l’esercito israeliano interviene direttamente (e duramente) anche in Cisgiordania. In pratica, sono caduti nel tranello di Benjamin Netanyahu, che tutto voleva tranne la rinascita del processo di pace.
In altre parole, tutto sta andando come vorrebbe il premier israeliano. Il che è, ovviamente, un problema. Non solo per i palestinesi, che vedono sempre più concreta la possibilità di uno status quo di guerra permanente, nel quale le loro condizioni sono sempre più precarie, ma per la stessa società israeliana, che può cedere al senso di sicurezza derivante dal dominio militare e rinunciare a qualsiasi vera prospettiva di pace e normalizzazione.
Non posso biasimare gli israeliani che decidono di barattare diritti in cambio di sicurezza, specie se i diritti non sono i loro ma quelli di altri: quasi ogni paese occidentale ha ceduto persino di più, con minacce enormemente inferiori. Però è chiaro che, senza una via d’uscita, si arriva al conflitto permanente, il che significa due cose: l’impossibilità di una normalizzazione definitiva dei rapporti con gli arabi che contano e l’involuzione della società israeliana, verso un modello sempre più securitario, repressivo e persino razzista.
Contro queste spinte, oltre ai potenti anticorpi di Israele (che si sono mostrati nella decisione della Corte Suprema contro le riforme di Bibi), gioca anche un altro fattore: la risposta degli altri israeliani, arabi e drusi, che si sono mobilitati con grande impegno per difendere il loro stato.
Fin dall’inizio della guerra era chiaro che ci sarebbero dovute essere due fasi. La prima, ossia lo sradicamento di Hamas dalla Striscia, si sta completando e qualsiasi accordo praticabile finirebbe per sancirlo. La seconda è una proposta concreta e praticabile di pace e ricostruzione, con la partecipazione dei paesi arabi. L’attuale governo israeliano ha scelto una linea decisamente diversa: con Smotrich e Ben Gvir che difficilmente faranno parte di qualsiasi possibile maggioranza, con Netanyahu inseguito dai provvedimenti giudiziari e il Likud stesso che sta per scaricarlo, passando con ogni probabilità alla leadership di Gallant, i governanti di oggi sono dei morti che camminano, in primo luogo per le tensioni interne a Israele, lo stato dell’economia e, più di tutto, le enormi falle del sistema di sicurezza il 7 ottobre.
Perciò, la loro tattica, finché restano al potere, è questa: restare in uno stato di emergenza continuo per evitare le elezioni anticipate, arrivare all’occupazione di fatto a Gaza e a una condizione di scontro aperto in Cisgiordania, espandere le colonie e lasciare al prossimo governo l’eredità avvelenata del conflitto permanente, riducendone al contempo l’intensità per renderlo economicamente sostenibile.
Questa non è la sola strada: è ancora possibile cambiare radicalmente percorso, partendo dal dato più importante messo in luce da questa guerra. E cioè che a volere la normalizzazione delle relazioni arabo-israeliane sono davvero in molti, a partire dai paesi arabi del Golfo, i soli che contino davvero sullo scacchiere internazionale.