Integrazione cercasi Perché lo ius scholae è un’opportunità per l’Italia

I cambiamenti della composizione della popolazione richiedono un’evoluzione del concetto di cittadinanza e del sistema legislativo. Secondo Graziella Rome, docente di Diritto costituzionale comparato all’Università Bocconi, l’approvazione della riforma permetterebbe di riconoscere a migliaia di giovani un senso di appartenenza che vivono già quotidianamente, costruendo una società in linea con il mondo globalizzato

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L’apertura del dibattito sullo ius scholae è una buona notizia per l’Italia. I mutamenti nella struttura demografica del Paese impongono un adeguamento legislativo per evitare l’ossificazione di regole che non riflettono la realtà sociale. Gli eventi olimpici, infatti, hanno mostrato una società più diversificata di quanto alcune narrative vogliano far credere.

Le simulazioni sui dati del ministero degli Interni suggeriscono che l’eventuale approvazione di una legge sullo ius scholae interesserebbe circa cinquecentosessantamila studenti in cinque anni (fonte: Tuttoscuola). In sostanza, questo mezzo milione di persone che, cresciute e scolarizzate in Italia, non ne possiedono cittadinanza – perché i genitori non sono o non erano cittadini al momento della loro nascita e la domanda di cittadinanza è un’opzione possibile, soddisfatte certe condizioni, a partire dal compimento dei diciotto anni – otterrebbe la formalizzazione di una realtà di fatto. 

L’esclusione dalla cittadinanza in questi casi, del resto, si basa sulla presunzione che la piena appartenenza alla Nazione si acquisisca attraverso la trasmissione di usi e costumi, della lingua, della cultura di un Paese mediata dal contesto familiare. Secondo questo modello, il senso di appartenenza, da minori, non si può acquisire attraverso il contatto diretto con la storia, la lingua, la cultura di un Paese, sperimentato in un’aula scolastica e nel confronto fra coetanei, ma deve necessariamente essere filtrato dalla famiglia. 

Attualmente, per tutti coloro che sono stati esposti alle caratteristiche di questo Paese e ne hanno acquisito i codici sociali e i riferimenti culturali esiste la strada della naturalizzazione al compimento del diciottesimo anno di età e cioè la richiesta di essere riconosciuti, da adulti, per quello che si è stati, da sempre o da molti anni, ovvero linguisticamente e culturalmente italiani. Non è difficile immaginare che questa opzione possa essere frustrante, se non addirittura rischiosa. Il senso di appartenenza a una comunità negato o disconosciuto può generare un distacco da quella comunità, una difficoltà di piena integrazione e la sensazione di essere ai margini di un gruppo al quale si contribuisce quotidianamente. I potenziali beneficiari di una riforma della cittadinanza hanno ampiamente spiegato questa condizione.

Ma lo ius scholae non è solo una questione di giustizia; vi è almeno un’altra ragione per cui sarebbe una buona idea. La cittadinanza, in un mondo condizionato da scambi globali e mobilità costante, è un concetto dinamico che ha smesso da tempo di riflettere la composizione storico-genealogica della popolazione. Se la cittadinanza deve essere il fondamento di uno spirito repubblicano di partecipazione e interesse per il destino comune di un Paese, deve corrispondere ai mutamenti della composizione della sua popolazione, senza pretendere di definire una nazionalità esclusivamente sulla base di usi, costumi e caratteristiche storiche. Il contributo alla costruzione del patrimonio culturale, economico e spirituale di un Paese – come quello offerto, per esempio, da una giocatrice olimpionica di pallavolo – dipende in modo decisivo dal riconoscimento della possibilità di appartenere pienamente alla comunità politica per tutti coloro che in quel Paese costruiscono le loro aspettative di vita e realizzazione.

Anche qualora una visione aperta e globale del mondo non convincesse, non si può negare che la significativa presenza di immigrati di seconda generazione rappresenta una realtà destinata a crescere, anche a causa della struttura della popolazione autoctona. La tendenza ad avere sempre meno figli, combinata con l’invecchiamento della popolazione, rende più visibili i minori non italiani. Questo non dovrebbe suscitare insensate preoccupazioni di sostituzione etnica, lontane dalla realtà, ma piuttosto spingere a riflettere sul contributo positivo che l’immigrazione apporta alla vita del Paese.

Articolo di Graziella Romeo, Università Bocconi

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