Modello divorzioSullo ius scholae l’opposizione ha un solo dovere, non offrire alibi a Meloni e Tajani

Il campo largo e Azione dovrebbero comportarsi come fecero la sinistra e i partiti laici nel 1970 sulla legge Fortuna-Baslini: accettare una riforma incompleta per aprire un varco nella maggioranza e fare avanzare così la politica dei diritti in Italia

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Quando il 2 dicembre del 1970 fu definitivamente approvata la legge sul divorzio, la maggioranza parlamentare divorzista non coincideva affatto con la maggioranza di governo. Dei duecentottantasei deputati che nella votazione definitiva votarono contro la legge Fortuna-Baslini, il grosso apparteneva al partito di maggioranza relativa, cioè alla Democrazia cristiana. 

Malgrado le minacce di decine di deputati democristiani, ma non dei vertici del partito, di preferire una crisi di governo all’approvazione di una legge che mettesse in discussione l’unità della famiglia, il Governo Colombo proseguì nella sua azione e cadde solo un anno dopo, per una causa del tutto diversa, cioè l’elezione di Giovanni Leone a Capo dello Stato con i voti determinanti del Movimento sociale italiano.

La Dc non considerò affatto chiusa con quel voto la questione divorzio e aveva già precostituito un appuntamento di rivincita, facendo approvare sei mesi prima la legge di attuazione dell’articolo 75 della Costituzione e preparandosi allo scontro referendario, che poi perdette nel 1974. 

Però i vertici del partito dei cattolici, allora tutt’altro che inclini a compromessi progressisti – come dimostrerà proprio l’elezione al Quirinale di Leone – e per niente rassegnati a una legge avversata ufficialmente dalla Chiesa, non usarono nei confronti del Parlamento il ricatto del possibile suicidio del Governo, della maggioranza e della legislatura, ma al contrario dichiararono di accettare il responso delle camere come espressione, sia pure parziale e correggibile, della sovranità popolare.

Astrattamente (molto astrattamente, per le ragioni che dirò) sulla riforma oggi denominata ius scholae (e in precedenza ius culturae) si potrebbe aprire un analogo scenario, con la formazione di una maggioranza parlamentare favorevole alla concessione della cittadinanza ai minori stranieri in larghissima misura non coincidente con l’attuale maggioranza di governo. 

In questo scenario, a Fratelli d’Italia spetta il ruolo che nel 1970 aveva la Dc e a Forza Italia quello che ebbero allora socialisti, socialdemocratici e repubblicani, che erano parte del Governo Colombo ma anche della coalizione divorzista. 

Perché questo scenario di concretizzi, sarebbe però necessario che i partiti di opposizione accettassero preventivamente e pubblicamente la proposta di FI (non perché ottimale, ma perché l’unica oggi realizzabile) per lasciare a FdI e FI la responsabilità di fare le proprie scelte, senza nascondersi dietro le divisioni insanabili del Parlamento. 

Se infatti la discussione si radicalizzasse subito tra chi vuole lo ius soli o uno ius scholae molto più generoso (e più razionale) di quello di FI e chi non vuole toccare nulla della legge sulla cittadinanza, Antonio Tajani avrebbe gioco facile a dire di averci provato e di non esserci riuscito – incassando gratis un bonus di moderazione civile – e Giorgia Meloni avrebbe la possibilità di dire che non è il Governo a impedire un accordo parlamentare, ma sono le camere a non riuscire a raggiungerlo.

Anche la legge sul divorzio del 1970 era decisamente compromissoria e pure vessatoria, invero molto più di quanto oggi sia criticabile lo ius scholae di Forza Italia – cittadinanza a sedici anni, dopo l’assolvimento dell’obbligo scolastico – e l’istituto dello scioglimento del matrimonio ebbe bisogno di ripetute manutenzioni legislative prima di assumere una fisionomia pienamente civile. Nondimeno quella riforma segnò un vero e proprio spartiacque nella storia politica e dei diritti in Italia. Sullo ius scholae sarebbe possibile un’operazione analoga, ma la condizione è che i partiti di opposizione non si ingegnino per offrire alibi alle forze di maggioranza e non scelgano la strada del tanto peggio tanto meglio, già sperimentata con successo nella scorsa legislatura con la legge contro le discriminazioni per ragioni sessuali.

Chiamare subito il Parlamento a pronunciarsi sulla proposta di Forza Italia (senza evitare di proporre modifiche al testo normativo, ma senza condizionarne l’approvazione all’accoglimento), sarebbe il modo migliore per saggiare la concreta istituzionalizzazione democratica del partito post-fascista di Giorgia Meloni e rappresenterebbe un banco di prova indiscutibile delle reali intenzioni di Tajani e di Forza Italia. Certo, c’è di mezzo anche la Lega, ma è una ragione in più per lasciare alle forze di maggioranza di fare chiarezza al proprio interno.

Mi rendo conto: è uno scenario troppo razionale e trasparente per piacere all’intera opposizione campolarghista, in cui una rendita minoritaria da opposizione antifascista senza se e senza ma fa generalmente più gola dell’investimento sulle riforme necessarie e possibili. Però è bene che questo scenario vada tenuto in conto, visto che esiste: basta che lo si voglia.

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