Questo è un articolo del nuovo numero di Linkiesta Magazine L’età dell’insurrezione + New York Times Big Ideas in edicola a Milano e Roma e negli aeroporti e nelle stazioni di tutta Italia. E ordinabile qui.
«Il mio problema con la lingua francese», mi disse Khadim, versandomi nel bicchiere un tè alla menta dolce e appiccicoso, «è che amo odiarla». Le sue parole mi colpirono: mi resi conto di avere a mia volte lo stesso rapporto con un’altra lingua. Era il crepuscolo. Eravamo seduti sul tetto della casa dei genitori di Khadim ad Amite III, un quartiere residenziale di Dakar, la capitale del Senegal, dove stavo trascorrendo un anno di studio all’estero. Avevo vent’anni ed ero ossessionata dall’Africa occidentale, dalla sua storia e dalle serate a base di tè con Khadim e gli altri suoi amici che studiavano filosofia e riuscivano a rendere più elastica la mia mente facendola uscire dalla sua comfort zone.
Fu durante quelle lente e divaganti conversazioni sui tetti – che si avventuravano in ogni anfratto delle nostre vite, dalle sbandate sentimentali al difficile rapporto con la propria identità fino ad arrivare alla geopolitica – che ricevetti in dono una “lente senegalese” guardando attraverso la quale mi è stato poi possibile riesaminare la mia storia e comprenderla meglio.
Sono cresciuta in Georgia, dove da bambina ho assistito al violento collasso dell’Unione Sovietica e ho imparato – in primo luogo dai miei genitori – che l’instabilità e il caos erano un piccolo prezzo da pagare affinché la secolare lotta per l’indipendenza della Georgia potesse trionfare. Tra le tante contraddizioni di cui è stata disseminata la mia infanzia, c’è il fatto che ho imparato il russo, la lingua franca sovietica, da mia madre (metà polacca e metà armena), la quale mi costringeva a leggere Guerra e Pace in originale, ma pretendeva che i miei studi formali si svolgessero in georgiano – e mi insegnava che non avrei mai dovuto fidarmi di nulla che provenisse da un’autorità designata, specialmente se questa autorità aveva sede a Mosca.
Prima di sedermi su quel tetto di Dakar, non avevo mai pensato alla mia identità disordinata come a un sottoprodotto del colonialismo. Proprio come succedeva a me con il russo, Khadim amava tutte le opportunità che il francese, la lingua degli storici oppressori del suo Paese, gli aveva aperto. E, come me, aveva una conoscenza da madrelingua dell’idioma di un Paese in cui non aveva mai vissuto ed era in grado di distinguere perfino le sfumature di una cultura di cui non aveva mai fatto parte. Ma, a diferenza di me, era perfettamente consapevole del prezzo che aveva dovuto pagare per avere accesso a tutto quello. «Non ho mai pensato al russo nello stesso modo in cui Khadim pensa al francese, ma credo di avere anch’io un rapporto di amore-odio con quella lingua», scrissi nel mio diario proprio quella sera. «È strano il modo in cui il russo rappresenti, allo stesso tempo, l’oppressione e un’opportunità».
Quel vecchio diario documenta il mio stupore (o era invidia?) per la profonda consapevolezza che Khadim e i suoi amici mostravano di avere quando si trattava di capire come l’eredità storica del colonialismo francese in Africa occidentale infuenzasse i loro percorsi personali. E registra quale fosse stata la mia meraviglia quando scoprii le somiglianze tra il santo senegalese Cheikh Amadou Bamba, che condusse una lotta pacifsta contro il colonialismo francese, e il santo ortodosso georgiano e guaritore Padre Gabriel, che nel 1965 fu torturato dai sovietici dopo aver dato fuoco a un ritratto di Lenin alto otto metri.
Oggi il termine “colonialismo”, con tutti i suoi possibili prefissi e tutte le sue sottocategorie, può sembrare ormai abusato: ci sono il neocolonialismo e il tecnocolonialismo, il postcolonialismo e l’ecocolonialismo, il colonialismo dei settler e il colonialismo interno. E potrei andare avanti: l’elenco è così lungo da risultare noioso. Eppure, nessun’altra parola a nostra disposizione è in grado di cogliere quella continuità storica della dominazione e dell’oppressione che è alla base di molti degli attuali problemi del mondo. Ognuno di noi è portatore di un’eredità coloniale: o in quanto vittima del colonialismo o in quanto “benefciario” (oppure, in qualche caso, in entrambi i ruoli).
Il colonialismo è il sistema di oppressione in base al quale è stato costruito il mondo in cui viviamo. E, visto che siamo ossessionati dalla decolonizzazione di ogni cosa (partendo dalle scuole per arrivare alle aziende di ogni settore), è utile ricordare che la nostra comprensione del colonialismo può essere manipolata molto facilmente se non decolonizziamo, innanzitutto, noi stessi.
La mia è una storia tipica e, al tempo stesso, eloquente. Per quanto i miei genitori potessero avere a cuore la libertà della Georgia da Mosca, in un modo o nell’altro avevo comunque fnito per credere al mito largamente accettato secondo il quale l’Unione Sovietica era una potenza anticolonialista. Durante i miei studi all’interno del sistema scolastico sovietico e poi anche nell’università che ho frequentato negli Stati Uniti, mi è stato insegnato come il colonialismo fosse un qualcosa che i Paesi occidentali imponevano all’Africa, all’Asia e all’Estremo Oriente.
È stato solo quando sono andata in Senegal e ho scoperto per caso la profondità e la facilità con cui riuscivo a relazionarmi con gli aspetti anticolonialisti dell’identità dell’Africa occidentale che ho iniziato a capire che ero anch’io un prodotto “colonialismo”. Fino ad allora, la lotta per l’indipendenza delle Repubbliche sovietiche non russe era stata classificata nella mia mente come un qualcosa di qualitativamente diverso rispetto alla condizione dei popoli di altre parti del mondo che scontavano un passato coloniale.
Così com’è accaduto negli Stati Uniti con le proteste di Black Lives Matters e la conseguente presa di coscienza del razzismo anti-nero, l’invasione su larga scala dell’Ucraina da parte della Russia, iniziata nel febbraio del 2022, ha innescato in tutta la periferia storica dell’impero russo una profonda riconsiderazione del colonialismo, che ha portato con sé istanze di revisione e di riparazione. E questo ha suscitato una reazione da parte della Russia.
Dall’Asia Centrale ai Paesi baltici, dal Caucaso alla Polonia, attivisti, studiosi, storici, giornalisti e semplici cittadini hanno improvvisamente riportato alla luce molte storie a lungo nascoste di oppressione, deportazione e pulizia etnica, nonché il ricordo di molte politiche di “russifcazione” imposte nel corso dei secoli dal Cremlino. Queste storie erano tutte diverse tra loro, ma il punto di vista era lo stesso: la guerra della Russia in Ucraina era un confitto coloniale per antonomasia e faceva pare parte di una secolare e ininterrotta serie di tentativi di conquista e di sottomissione.
In tutto l’ex impero russo, questa lotta per sottrarsi alla sottomissione ha caratterizzato una generazione dopo l’altra. Oggi in Georgia i figli di coloro che nel 1989 avevano protestato contro l’Unione Sovietica – e avevano contribuito alla sua fine – protestano nelle stesse strade contro i tentativi dell’attuale governo di allontanare il Paese dal suo percorso pro-europeo e di ricondurlo nell’ovile russo.
«Non abbiate paura! Vinceremo con onore», recitava un manifesto tenuto da tre donne che nel maggio del 2024 si sono unite ad altre decine di migliaia di manifestanti per le strade di Tbilisi, la capitale della Georgia. Quelle parole hanno più di cent’anni e sono di Maro Makashvili, una giovane donna georgiana che le scrisse più di un secolo fa, nel 1917, quando la Rivoluzione bolscevica contribuì a porre fine al dominio zarista in Russia. Per la Georgia, la Rivoluzione significò la riconquista della libertà dopo due secoli di dominazione da parte del suo vicino settentrionale e, finalmente, la possibilità di scrivere la propria storia.
Solo in pochi sanno che in quegli anni la Georgia si mise in luce come una delle democrazie più progressiste d’Europa, un luogo in cui le donne potevano votare e alle minoranze venivano riconosciuti dei diritti. La giovane Maro Makashvili assistette a tutto questo e documentò nei suoi diari le ambiziose sperimentazioni della Georgia con la democrazia. Queste sperimentazioni, però, si conclusero bruscamente e tragicamente quando, nel 1921, i bolscevichi invasero la Georgia, annientando l’élite intellettuale e politica del Paese, costringendo violentemente la Georgia a entrare nell’Urss e riscrivendo la storia del Paese per adattarla alla narrazione sovietica.
Tiko Suladze, un residente di Tbilisi che in occasione di una recente manifestazione di protesta contro la Russia e contro il governo mostrava una riproduzione del ritratto di Maro Makashvili ha detto: «Per me, oggi, Maro rivive in ogni donna bella, forte, intelligente e giovane che protesta nelle strade». Gli stati d’animo che Makashvili descrisse nei suoi diari in quel periodo hanno a che fare con la libertà per le donne e con la libertà per tutto il suo Paese. E sono le stesse idee che risuonano anche oggi nelle trincee della lunga guerra contro l’imperialismo russo.
L’Ucraina in questo momento ne è l’epicentro più sanguinoso, ma lo scontro si estende anche altrove nei vasti territori che appartennero all’impero russo: ma non si potrebbe sapere che le cose stanno così, se ci si limitasse ad ascoltare i media mainstream che in Occidente spiegano la guerra presentandola come una lotta geopolitica tra Mosca e Washington e sminuendo così, sbadatamente, la vera lotta delle persone che si trovano in prima linea. Tutto questo accade, almeno in parte, perché adottiamo una definizione ristretta di colonialismo.
È proprio la natura stessa del colonialismo russo a non rientrare nella tradizionale defnizione occidentale di “oppressione”. Nel corso dei secoli, mentre le potenze europee conquistavano territori oltremare, la Russia ha gestito un impero di terra che ha assorbito i suoi vicini. E, mentre gli europei sostenevano l’idea che i loro sudditi fossero “diversi” da loro, i russi li conquistavano usando un altro strumento: “l’identicità”, ovvero la pretesa che fossero la stessa cosa dei russi. Nel sistema coloniale russo, poi perfezionato dai sovietici, ai popoli sudditi era vietato parlare nella loro lingua o celebrare la loro cultura (al di fuori di una sua versione sterilizzata approvata e autorizzata da Mosca). In cambio, alle persone che appartenevano a questi popoli veniva permesso di fare carriera.
Nel 2022, mentre sganciava bombe su Kyjiv, Vladimir Putin ha lanciato una campagna audacemente controintuitiva che aveva l’obiettivo di presentarlo come un eroe globale anticolonialista. E in quello stesso anno il Ministero della Cultura russo ha annunciato che le priorità tematiche per i flm fnanziati dallo Stato avrebbero incluso la promozione dei “valori della famiglia”, la rappresentazione del “degrado culturale” dell’Europa e i flm sul “neocolonialismo anglosassone”.
Facendo leva sull’eredità della tradizione sovietica di sostegno ai movimenti anticolonialisti e sfruttando la genuina disillusione delle popolazioni nei confronti dei doppi standard della politica estera americana in luoghi come il Medio Oriente, Putin ha ordinato ai suoi diplomatici in Africa, in America Latina e in Asia di potenziare notevolmente il messaggio anticolonialista. Utilizzando i social media, la macchina della propaganda russa ha pompato lo stesso messaggio, rivolgendosi ai newsfeed dell’opinione pubblica di sinistra dell’Occidente, nonché alle comunità di immigrati e ai neri degli Stati Uniti.
Questa tattica ha funzionato. Nel 2023, a Nairobi, mi sono trovata a partecipare a una piccola conferenza insieme a un giornalista ucraino, a un redattore russo in esilio e a una decina tra redattori di lunga esperienza ed editori provenienti da tutto il continente africano. La conferenza era ospitata dalla Konrad Adenauer Stiftung, una fondazione tedesca afliata alla Cdu, il partito cristiano-democratico (di centrodestra) della Germania. La fondazione – che, nonostante la sua afliazione alla Cdu, svolge la sua attività in modo indipendente e ha un ruolo di primo piano nello sviluppo dei media in Africa – aveva organizzato quell’incontro sull’onda della preoccupazione per il crescente difondersi, in quel continente, di narrazioni favorevoli alla Russia.
In quella sala di Nairobi c’era molta simpatia per l’Ucraina e molta preoccupazione per le campagne di disinformazione, chiaramente malevole, intraprese in tutta l’Africa da una serie di “infuencer”. Ma sono state espresse anche delle spiegazioni convincenti sul perché l’Africa stesse trovando la comunicazione confezionata a Mosca più persuasiva di quella prodotta dall’Occidente.
L’Ucraina, spiegavano i miei colleghi africani, viene percepita come un “progetto occidentale”. Il messaggio a favore dell’Ucraina, che in Africa è stato difuso perlopiù attraverso i canali diplomatici e mediatici occidentali, ha incontrato resistenza perché le opinioni pubbliche ritengono che l’Occidente si sia rifutato di rendere conto delle guerre condotte dall’America in Iraq, in Afghanistan e in Libia. «Voi potete anche ritenere che si tratti di whataboutism, ma questa resistenza si basa su delle domande reali a cui nessuno ha risposto», ha detto alla conferenza di Nairobi un redattore africano [il whataboutism è l’abitudine di cambiare argomento dicendo «E allora quell’altra cosa?», come nell’espressione, ormai assurta a meme, «E allora i marò?», ndr].
Il messaggio della Russia, invece, come mi ha detto in quella stessa occasione Nwabisa Makunga, una giornalista del quotidiano The Sowetan di Johannesburg, «fa breccia in modo sottile ed efcace». Il team di giornalisti con cui lei collabora, mi ha spiegato Makunga, ha dovuto faticare per mantenere l’obiettività in un contesto in cui il sentiment dell’opinione pubblica era prevalentemente flo-russo e c’era la difusa convinzione che fosse stato il comportamento dell’Ucraina a causare l’invasione.
Durante il mio viaggio a Nairobi, uno dei giornalisti ha condiviso un articolo op-ed inedito che gli era stato inviato via e-mail dall’ambasciatore russo in Kenya, Dmitry Maskimychev. In quell’intervento si leggeva: «Se passate in rassegna i leader dell’Unione Sovietica, troverete due russi (Lenin e Gorbačëv), un georgiano (Stalin) e tre ucraini (Brežnev, Chruščëv e Černenko). Ma che impero colonialista! Riuscite a immaginare un keniano seduto sul trono britannico? Non fatevi trarre in inganno: quello che sta accadendo in Ucraina non è una manifestazione dell’“imperialismo” russo, ma uno scontro “ibrido” con la Nato». Si tratta di un messaggio efcace, che fa breccia anche presso molti intellettuali occidentali che continuano a discutere dei torti e delle ragioni per quanto riguarda l’allargamento della Nato e non del fatto che un Paese sovrano abbia il diritto di volersi staccare dai suoi padroni coloniali.
Il flosofo ucraino Volodymyr Yermolenko [di cui trovate un intervento nelle pagine successive di questo magazine, ndr] è uno degli intellettuali che hanno più cose interessanti da dire quando si tratta di confrontare lo stile colonialista russo con quello occidentale. Ed è stato proprio Yermolenko a introdurmi per la prima volta all’idea di “identicità” come strumento di dominazione. Il messaggio del colonialismo occidentale – ha spiegato l’anno scorso allo Zeg Storytelling Festival di Tbilisi – era questo: «Voi non siete capaci di essere come noi». Il messaggio del colonialismo russo, invece, era: «A voi non è consentito di essere diversi da noi». Sebbene vi siano state delle diferenze nel modo in cui i russi e gli europei hanno costruito i loro imperi, il risultato è stato lo stesso: violenza, confni ridisegnati, repressione di culture e lingue e annientamento di intere comunità.
L’idea della “identicità” come strumento di dominazione spiega anche perché la maggior parte dei russi ben intenzionati che mi capita di incontrare sembrino stranamente inconsapevoli del fatto che il loro Paese sia percepito come un padrone coloniale. Ci sono, ovviamente, delle eccezioni degne di nota, ma quasi nessuno dei russi che conosco, compresi quelli più liberali, sembra minimamente interessato ad afrontare la questione del colonialismo con qualcuno che, come me, è un ex suddito del loro Paese. Subito dopo l’invasione dell’Ucraina, ho chiesto a un importante giornalista russo liberale se avesse intenzione di introdurre il tema del colonialismo presso i suoi lettori russi, altrettanto liberali di lui. Ma mi è sembrato sinceramente ofeso dal suggerimento. «Ma noi non siamo colonialisti!», mi ha risposto.
Uno dei motivi per cui tra i liberali russi non si discute per nulla o quasi del colonialismo è che anche nell’ambito del dibattito occidentale sul colonialismo non si parla quasi della Russia. Yermolenko ritiene che tra il XIX e il XXI secolo l’élite intellettuale occidentale sia passata, per quanto riguarda il colonialismo, da un estremo all’altro: «Si è passati dal dire “Noi siamo i migliori e nessuno può paragonarsi a noi” al dire “Noi siamo stati i peggiori e nessuno può paragonarsi a noi”», spiega Yermolenko.
Lo storico georgiano Lasha Bakradze fa un ulteriore passo avanti: «Al centro di questa incapacità di comprendere, accettare e analizzare altre forme di colonialismo si trova, paradossalmente, la mentalità coloniale dell’Occidente stesso. Ed è proprio qui che sono sepolti gli scheletri del colonialismo occidentale».
Per due decenni, questi limiti autoimposti del dibattito occidentale sul colonialismo hanno dato al Cremlino un enorme vantaggio propagandistico, consentendo a Putin di presentare la Russia come una potenza anticolonialista e se stesso come il campione di tutte le vittime del colonialismo europeo. E questi stessi limiti hanno anche plasmato gli strumenti autoimposti e predefniti attraverso cui cerchiamo di comprendere che cosa sia l’oppressione.
«Ancora oggi, per me, l’elemento fondamentale della decolonizzazione consiste nel poter imparare e raccontare, con le proprie parole e per intero, la propria storia e nel potersi attenere alla narrazione che si preferisce», sostiene un mio amico, il giornalista ucraino Maksym Eristavi, il cui libro Russian Colonialism 101 è un succinto resoconto di uno degli aspetti dell’avventura coloniale della Russia: le invasioni. «Perché, se puoi fare questo, signifca che sei in grado di distinguere fra la parte di te che è autentica e la parte di te che è stata invece programmata dal colonizzatore».
Il processo di decostruzione delle proprie narrazioni può essere, però, un’esperienza difcile e profondamente scomoda. Prendiamo ad esempio le istituzioni accademiche occidentali che tradizionalmente, animate dalle migliori intenzioni, insegnano la storia e le lingue delle ex colonie russe in Asia centrale e nel Caucaso all’interno dei loro dipartimenti di Studi russi. La guerra in Ucraina ha innescato una rifessione nelle università americane, nelle quali i professori hanno iniziato a discutere su come insegnare l’imperialismo e il colonialismo russo.
A causa dell’invasione dell’Ucraina e delle sanzioni occidentali, alcuni programmi di studio della lingua russa non potevano più inviare i loro studenti in Russia, e in molti casi si è quindi fatto ricorso a una soluzione semplice: mandare gli studenti in altri Paesi in cui si parla anche il russo, dal momento che è la lingua dell’oppressore. Ma solo ora che vengo a sapere di studenti americani che vengono in Georgia per imparare il russo, mi arrabbio per il comportamento coloniale di istituzioni che si suppongono liberali e, allo stesso tempo, provo imbarazzo per il fatto che a vent’anni non mi sono posta nessunissimo problema quando ho deciso di andare in Senegal a studiare il francese.
È impossibile fornire una rappresentazione complessiva del colonialismo. Ma è possibile e necessario ascoltare e rispettare ognuna voce, perché è solo mettendoci all’ascolto della moltitudine delle voci oppresse – da Gaza allo Yemen, dalla Georgia all’Ucraina, dalle riserve americane alle piantagioni dove lavoravano gli schiavi – che inizieremo a comprendere i sistemi di oppressione e i modelli che li sostengono. «Il colonialismo riguarda innanzitutto il trauma», aferma Maksym Eristavi. «Il trauma della tua identità violata, cancellata, riprogrammata. Il trauma di perdere le proprie radici, in senso fgurato e in senso quasi letterale. L’obiettivo del colonizzatore è farti sentire piccolo e isolato. È farti pensare che la mancata realizzazione del tuo potenziale sia colpa tua».
«Alla fne il mio povero Paese sarà benedetto dalla libertà», scrisse la giovane georgiana Maro Makashvili nel suo diario nel 1918. Quando l’Armata Rossa invase la Georgia nel 1921, occupando il Paese per i successivi settant’anni, migliaia di georgiani furono uccisi. Tra loro c’era anche Maro. Oggi Maro Makashvili è un’eroina nazionale. Ma se la sua storia non entrerà a far parte della narrazione anticolonialista globale, gli oppressori – in Russia e non solo – continueranno a vincere.
Il testo originale di questo articolo è comparso su codastory.com
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