«La piccola Lucy aveva deciso di sposare la persona sbagliata per la ragione sbagliata» è la prima frase che mi è venuta in mente quando ho sentito “Allucinazione collettiva”, la cronaca d’un matrimonio sbagliato uguale a tutti i matrimoni sbagliati eppure sbagliato a modo suo.
La frase viene da “Quando lei era buona”, che è un libro minore di Philip Roth, ed è il libro attraverso il quale è più interessante interpretare la parabola di Chiara Ferragni, ed è l’unico libro di Roth in cui la protagonista sia una donna. Una stronza, ma questo è irrilevante.
Cioè, diventa rilevante solo filtrato da Lena Dunham, dalla Lena Dunham trentunenne. All’altezza di “American bitch”, la miglior puntata di “Girls”, Dunham ha l’età che ha Chiara Ferragni quando si sposa. Sono i trentun anni l’età alla quale le donne di questo secolo presentano al mondo la loro opera più importante? Non saprei, non m’intendo di questo secolo, ma Madonna a trentun anni cantava “Like a prayer”, mentre Nora Ephron neanche si era ancora messa con Carl Bernstein.
Quando stava per uscire “Allucinazione collettiva”, la canzone in cui il suo ex racconta d’aver tentato il suicidio facendo intuire una certa qual freddezza muliebre, Chiara Ferragni ha scritto due storie Instagram in cui la sintetizzava così: «Una finta canzone romantica, priva di sincerità. Un palese tentativo di sfruttare il momento, un atto violento, considerando che sono stati dieci mesi molto difficili». È stato in quel momento che è divenuta evidente la fine di Chiara Ferragni.
Più ancora di quando, due giorni dopo, l’hanno fotografata ai Sustainable Fashion Awards, unico avvenimento della settimana della moda milanese che non l’abbia messa al bando per radioattività, in questo settembre come ogni giorno negli ultimi nove mesi, come ogni giorno da quando quella vicenda ridicola di pandori e beneficenza l’ha fatta passare da colei che i marchi della moda si svenavano per avere a colei che marchi quotati in Borsa non possono permettersi d’avvicinare.
Poiché abbiamo il giornalismo che abbiamo, i titoli erano «il ritorno di Chiara Ferragni alla settimana della moda», come se il punto fosse un tappeto su cui farsi fotografare e non case di moda cui fatturare, come se farsi fotografare servisse a qualcosa se poi, quasi un anno dopo, la gente è ancora avvelenata a lasciare commenti social «ha truffato sui bambini oncologiciiii», e le aziende ancora terrorizzate dall’insanabile sputtanamento incarnato dalla bionda (chi me lo doveva dire che finivo a citare una canzone di Fedez: «La gente festeggia sulla tua carcassa: mi chiedo alla fine che cosa hanno vinto»).
Quando pubblica “Quando lei era buona”, Philip Roth ha trentaquattro anni. Quando il personaggio di Hannah ne parla ammirata in “Girls”, Lena Dunham ne ha trentuno, ed è la sé diminuita che interpretava in quella serie. Una sé scrittrice ma di minor successo di quanto sia stata la Dunham vera, perché se devi creare una petulante e indisponente come e più di te devi almeno farla d’insuccesso (Katharine Hepburn disse al commediografo che doveva scriverle “Scandalo a Filadelfia”: falla come me, ma nell’ultimo quarto ammorbidiscila).
È la ragazza con qualche collaborazione convocata a casa del grande scrittore che vuole redarguirla perché ha insinuato fosse un maniaco sessuale. Ovviamente si ritroverà col cazzo dello scrittore in mano, ma prima c’è la scena in cui trova nella libreria una copia con dedica della prima edizione di “Quando lei era buona”, e sospira: come vorrei che un giorno qualcuno scrivesse un libro su quanto sono stronza.
Lo scrittore che ha di fronte è incredulo, e fa bene a esserlo: nessuno che di mestiere scriva desidera sospirosamente essere l’oggetto d’un libro altrui. Magari ti lusinga se accade, ma quel che fortissimamente vuoi è scrivere tu il libro sulla rovina tua o altrui. «Cosa c’è di meglio che rovinare la vita a qualcuno col proprio crudele sex appeal e un gelido intelletto», sospira Hannah, e la risposta che le darebbe Dunham nella vita è: correre a casa a scrivere una puntata su come gliel’hai rovinata. «Non andare coi cantautori, che poi finisci nelle canzoni», diceva quello, prima di Dunham: passano i secoli ma chiunque scriva continua a fare fatturato dei propri dolori, e spesso anche di quelli altrui.
Quando avevo vent’anni, dissi al mio allora analista che il tizio con cui stavo diceva sempre «sono depresso», e che secondo me era tutta una messinscena perché i depressi mica passano il tempo a dirsi depressi. Lui mi disse che invece poteva accadere che i depressi parlassero di quant’erano depressi, quel che non accadeva mai era che chi diceva «mi ammazzo» poi si ammazzasse davvero. Non so se fosse vero, ma mi è rimasto abbastanza impresso da pensarci da più di trent’anni ogni volta che qualcuno parla di tentato suicidio: è un tentativo di attirare l’attenzione o va preso sul serio?
Sono andata a riprendere “Quando lei era buona”, l’ho aperto in un punto a caso cercando il matrimonio Ferragni. Nel punto a caso non ci si occupa di Lucy e della compulsione alla bontà (decenni prima che fosse il male del secolo, quando la beneficenza era una cosa da ricchi che volevano scaricarla dalle tasse e non da celebrità in cerca di consenso), ma va bene uguale: «Non ci fu una singola cosa fra quelle che un uomo non dovrebbe dire a una donna – anche a una che odia, e il fatto era che Whitey invece la amava, la adorava, la venerava – che lui non avesse detto a Myra. Poi, come se un avvolgibile divelto e un rullo rotto e tutti quegli insulti fuori luogo non fossero stati abbastanza per una sola serata, prese la bacinella per lavare i piatti piena d’acqua calda e sale inglese e, senza alcun motivo plausibile, la rovesciò sul tappeto».
Tutti quelli che in questi dieci mesi hanno parlato d’un marito che aveva tentato il suicidio e d’una moglie non all’altezza della situazione, quasi tutti l’hanno fatto con dettagli molto più crudeli di quelli che si ascoltano in “Allucinazione collettiva”, ma una cosa va riconosciuta a Federico Lucia, non esattamente il miglior paroliere italiano né il più talentuoso autobiografista della nazione: non teme di sputtanarsi. Non ha il difetto principale degli autobiografisti noiosissimi di questo secolo: quello di voler fare bella figura.
Fino a quella canzone, non mi ero mai fermata a riflettere sul giornalismo che abbiamo: intento in quei giorni a scrivere centinaia di articoli sulla Ferragni chiusa in casa ad aspettare che passasse lo scandalo, e incapace di accorgersi che intanto il marito veniva portato a farsi la lavanda gastrica.
Fino a quella canzone, non mi ero resa conto che il vantaggio di Nora Ephron su Carl Bernstein – lei poteva romanzare il loro divorzio e fare dello sputtanamento diritti d’autore, lui no; uno dei pochi scriventi a essere escluso dal meccanismo di cucina letteraria dell’emotività ferita: faceva il giornalista investigativo, non poteva riconvertirsi in memoirista dolente – era simile a quello che l’ex marito aveva sulla Ferragni.
Poi è arrivato venerdì, e la sconfitta di Chiara Ferragni, una che sul suo matrimonio finito non è in grado di scrivere un romanzo, un film, una canzone. Le resta solo Instagram, che va benissimo finché tutto va bene, ma non è abbastanza quando ti serve la rivalsa, quando l’unico modo di superare i guai è trasformarli in diritti d’autore. A lei Instagram, a lui il comandamento di Carrie Fisher: prendi il tuo cuore spezzato e fanne arte. Per quanto riguarda la distribuzione delle colpe, rimanderei ancora a Roth: «Be’, la morale, se ce n’era una, si sarebbe chiarita anni dopo».