L’ultima volta li ho visti sotto a qualche articolo su Salvini e la nave sequestrata e il processo richiesto e il video con le ombre. Erano quelli che una volta non avrei visto mai – c’è quella questione della bolla su cui ha torto la convinzione comune e ragione Baricco, ma ci arriviamo dopo – e dicevano la cosa che negli ultimi anni leggo quasi ogni giorno, ogni volta trasecolando.
La frase viene declinata in molti modi, la rimostranza ha diverse formulazioni, ma possiamo prendere a sua sintesi qualcosa come: e allora quando ci avete chiusi in casa? Oppure: e allora quando io non potevo prendere l’autobus? E allora quando senza greenpass non si andava al ristorante?
A qualunque notazione su una vera o presunta limitazione della libertà, c’è un pezzetto di Italia che risponde: e allora il lockdown? L’ultima versione, quindi, è: cioè non far attraccare una nave sarebbe sequestro di persona e chiuderci in casa per mesi invece no?
Ora. Io quel periodo che voi chiamate lockdown e io clausura lo ricordo molto bene, perché era la mia vita ideale. Non l’avrei detto quattr’anni fa, perché conosco le regole del mondo e so gli «e ai morti non ci pensiiii» che mi sarei presa. Ho amici sociopatici e ho registrato che tutti quanti abbiamo iniziato a dirci «non si può dire, ma è stato il più bel periodo della nostra vita» dopo un paio d’anni. A vaccini ormai non razionati, a lutti dimenticati. Dimenticati dai più, ma poi ci sono loro.
Che quattro anni e mezzo dopo stanno ancora pensando che a marzo del 2020 non potevamo andare al ristorante. Ci sono due modi di leggere il fatto che ci sia gente per cui il greenpass è stato una cosa rilevante (una volta avevo lasciato a casa il telefono scarico, e al bar dove facevo colazione di solito non sapevano se potevano darmi il cappuccino, poi qualcuno ha detto ma sì gliel’abbiamo controllato ieri, lo sappiamo che ce l’ha, e quei trenta secondi in cui pensavo che sarei tornata a casa senza cappuccino sono l’unica cosa che riesca a ricordare d’un documento che non so neanche se abbiamo usato per tre giorni o tre anni). Rilevante, memorabile, devastante: come si fa a parlare del greenpass anni dopo, possibile che tu abbia un carniere di aneddoti autobiografici così sfornito?
Ci sono due letture possibili, la mia è che sia un segno di gran salute emotiva: evidentemente non hai mai avuto un guaio serio, se la cosa più traumatica che ti sia mai capitata è che a un certo punto ti vaccinavi, ti mandavano un codice nel telefono, e quel codice dovevi farlo vedere al cameriere se volevi pranzare al ristorante invece che a casa. L’altra lettura, più interessante, è quella che ha articolato Baricco undici mesi fa, parlando di tutt’altro, a “Che tempo che fa”. È, quella di Baricco, una definizione di infelicità.
«C’è questa cosa che io non avevo mai capito nella vita, e l’ho scoperta molto tardi: che tu ti giochi una buona quantità delle tue possibilità di stare sul pianeta Terra con felicità, te la giochi sulla capacità che tu hai di lasciare andare le cose. Dalle più semplici: hai perso gli occhiali?, lasciali andare, non ci vedi un cazzo?, lascia andare. Hai perso un amico?, lascialo andare, hai vissuto un momento di felicità bellissimo con un amico?, ecco, il pensiero è sempre “rivediamoci la prossima settimana”: lascialo andare». (Fazio, che quella sera era tonico come lo sono gli intervistatori le rare volte in cui hanno davanti intervistati che valgano la pena, esalò: ti ho appena detto di tornare).
Un’amica quella sera mi disse che valeva anche per le ingiustizie, che la gente si rovina la vita cercando di sanare un’ingiustizia reale o percepita, e da quell’ottobre del 2023 non ho mai smesso di pensarci. È tutto così, dal MeToo al greenpass, dalle cronache d’infanzie dolenti fatte dagli adulti all’invenzione di parole sceme come «ghosting» se qualcuno fa il gesto sano di dare un taglio netto a una relazione finita invece di trascinarsi in giorni, anni di spiegazioni in modo da macerarci entrambi nell’infelicità un altro po’.
Poi sì, so che siamo tutti molto affezionati ai nostri traumi e che guai a dirci che abbiamo rotto i coglioni a ripeterli all’uditorio, guai a dirci che dobbiamo farcela passare o che – addirittura! – non erano poi così gravi. Lo sa anche Baricco, che pochi minuti prima aveva detto a Fazio «Se passi molto tempo all’ospedale lasci giù dei pezzi di te». Solo che, appunto: pezzi. C’è una bella differenza, tra il sapere che siamo anche i nostri traumi, e il pensare che i nostri traumi siano il nostro principale tratto identitario.
E c’è anche un bel po’ di benessere nella disposizione a ritenere tutto trauma: problemi immaginari per sopperire alla mancanza di quelli reali. E quindi c’è questa gente che qualunque cosa succeda corre sull’internet a dire e allora il lockdown, e allora il greenpass, e allora la più grande sospensione delle libertà civili. Se fossero stati adulti nel 1973 chissà cos’avrebbero detto del trauma delle trasmissioni televisive non oltre le undici di sera perché bisognava risparmiare elettricità.
Nel 1975 uscì “Conviene far bene l’amore”, film di Pasquale Festa Campanile ambientato nel secolo successivo: non si è mai più trovato il modo di procurarsi energia, finché Gigi Proietti non capisce che la si può ottenere dai coiti, e quindi convince il Vaticano a propagandare accoppiamenti non solo a scopo di riproduzione, a depenalizzare il sesso e a concentrarsi su nuovi peccati. Ovviamente quando non è più peccato nessuno ha più voglia di scopare, ma il punto non è quello.
Il punto sono i primi dieci minuti di film, quando Proietti si aggira per una Roma del futuro in cui la gente fissa televisori spenti da decenni: «Siamo, credo, sull’orlo di una vera nevrosi collettiva. Stanno lì immobili a guardare lo schermo spento e non dicono una parola per intere ore». La gente sta seduta in macchine ferme, gli antiquari vendono lampadine che non c’è più modo d’accendere, e a vederli pare impossibile che un anno e mezzo dopo l’austerity sapessimo già farne commedia, ora che quattr’anni dopo siamo ancora lì a frignare per il greenpass.
Magari i fissati col trauma dell’austerity c’erano anche allora, l’idea sarà pure venuta – come tutte le idee – da una qualche osservazione della realtà. Ma io non li avrei mai sentiti lamentarsi, perché non avevo in tasca un telefono nel quale convogliare il rumore di fondo di tutte le nevrosi d’ogni nicchia.
Di nuovo Baricco, di nuovo in quella puntata di Fazio, a proposito della presunta bolla in cui vivono i ragazzini oggi: «Io quando ero piccolo, vivevo in Italia, a Torino, avevo un telegiornale che mi raccontava il mondo, in alternativa disponevo della Stampa, cioè il giornale dell’uomo più ricco d’Italia. Avevo anche un’altra fonte d’informazione che era la parrocchia, io ero credente, e gli scout. Ora, in quegli anni c’era la guerra nel Vietnam. Ora, nella mia bolla, io avevo la minima possibilità di pensare qualcosa di diverso da: i vietcong sono cattivi, sporchi, destinati alla sconfitta e manovrati evidentemente dal demonio? Nessuna possibilità: quella è una bolla».
L’esempio non mi pare sensato (nella bolla della parrocchia sarà arrivato Gianni Morandi che coi Beatles stop, mi han detto va’ nel Vietnam – eccetera), ma sul fatto che quella che abitiamo ora è il contrario di una bolla ha ragione. Ogni volta che qualcuno teoricamente pagato per capire il mondo dice che sui social c’è una filter bubble e vediamo solo gente che conferma il nostro pensiero, io mi chiedo di cosa parli.
Io, sui social, scopro mondi che non avrei mai incontrato a cena, o in vacanza, o nel cortile di casa mia. Io, senza i social, non saprei che c’è gente che ancora pensa al greenpass, una roba che nel mio mondo è remota quanto i gettoni telefonici. Io, cinquant’anni fa, per scoprire che c’erano i traumatizzati dall’austerity dovevo andare al cinema a vedere Gigi Proietti che faceva accoppiare Christian De Sica e Agostina Belli perché cinque orgasmi facevano partire tre ascensori. Quella sì che era una bolla.