Ho smesso di dormire nel 2004. Fanno diciannove anni di articoli sulla mia insonnia. Non credo ci sia un giornale sul quale ho scritto in questo tempo di notti bianche e sul quale non abbia scritto almeno una volta (più spesso: parecchie volte) del mio non dormire.
C’è però, negli ultimi tre anni e mezzo del settore insonnia delle mie pubblicazioni, una grave omissione. Una cosa che fino a una settimana fa non avevo mai ammesso. Poi la vita, che è sceneggiatrice, mi ha sciorinato una serie di coincidenze che reclamavano la verità.
È cominciata per sbaglio, mentre passeggiavo in un centro città affollato di sfaccendati e, al telefono con un amico, mi lamentavo dell’umanità: della sua esistenza, del suo muoversi nei miei stessi luoghi, del mio non essere il marchese del Grillo e poter far sparire tutti a comando.
L’amico ha detto: non si può dire a voce alta, ma il lockdown è stato il periodo più bello delle nostre vite. Ho provato un brivido simile a quello che, a luglio, mi percorreva quando, in contesti privatissimi che sapevo non mi avrebbero fatta finire ghigliottinata in piazza, dicevo che comunque dopo l’alluvione a Bologna c’era un luglio così fresco che avrei messo la firma per un’alluvione all’anno.
Mi sono ricordata di quando Michela Murgia andò in non so più che programma televisivo in una città che non era la sua, nel periodo del fermo pandemico, e disse che però non era mica male viaggiare in treni vuoti, spostarsi in città vuote. Apriti cielo. La gente muore e tu ti rallegriiiii.
Ho raccontato all’amico che proprio quella mattina avevo visto su Twitter una trentenne rievocare gli aperitivi su Zoom, e ci siamo compiaciuti d’avere così brutti caratteri che nessuno mai s’è permesso di farci una proposta delirante quale quella d’accendere la telecamera del computer prima di versarci un bicchiere di vino.
Mentre l’amico diceva di non conoscere nessuno che avesse mai fatto aperitivi su Zoom, e di ritenerli una leggenda metropolitana, io mi sono ricordata che una la conosco. Una che, nella primavera del 2020, mise una foto su Facebook di lei che faceva l’aperitivo coi colleghi. Ancora me la ricordo, per quanto mi sembrò d’una specie diversa dalla mia.
Più di quelli che cantavano sui balconi invocando liberazione, neanche invece che a casa loro fossero stati alla riunione di condominio o in palestra. Più di quelli che facevano la pizza, neanche non avessimo avuto la sfacciata fortuna d’avere la pandemia quando già esisteva Glovo. Più di quelli che, tre anni dopo, vanno sotto qualunque penzierino social, che il tema siano i profughi, le pesche, i taxi, e compitano indignati il loro: e allora il greenpass?
Di recente ho detto in un’intervista che non bisogna partecipare gratuitamente ai festival culturali, che gratis non bisogna andare da nessuna parte. La romana che faceva gli aperitivi su Zoom mi ha mandato un messaggio dicendo ma tu che ne sai, ma tu vivi sola, ma una certe volte pur di scappare dai figli va pure tre giorni ad Acqui Terme e le sembrano la svolta.
Quindi, riepilogando, l’umanità che non mi somiglia è infelice comunque. Se è sola, invece d’essere contenta di bere un bicchiere d’ottimo Marina Cvetic in solitudine, rimpiange il prosecco sgassato dell’happy hour e accende la telecamera per sentirsi meno sola. Se è con la famiglia che si è volontariamente costruita, pur di fuggirne andrebbe in un tre stelle di Acqui Terme (prego la proloco di Acqui Terme di non notificarmi la propria permalosità, mica li ho scelti io come esempio).
Poiché la vita è sceneggiatrice, quella sera ho incontrato un altro amico che ha ritenuto anche lui di confessare l’inconfessabile. Il lockdown, mi ha detto, è stato il momento in cui finalmente tutti si sono messi a vivere come me. Mi sono ricordata di Pierluigi Battista che all’epoca diede di noialtri lieti della clausura una definizione piuttosto precisa: sociopatici di merda.
Quelli che si vantano d’essere sociopatici mi paiono un po’ come quelli che si sbattezzano, e quindi ero intenzionata a tenere per me queste conversazioni. Anche perché già lo so come finisce: che arriva qualche tapino che, pur di non restare solo con sé stesso, all’happy hour farebbe pure il karaoke, e dice in tono saperlalunghista che questa Soncini si finge lieta della sua silenziosa disperazione, ma noi sappiamo che bramerebbe quattro marmocchi che la svegliassero alle sei (essendosi lei finalmente riuscita ad addormentare alle cinque).
Qualche giorno dopo, quella Suso Cecchi D’Amico che è la vita mi ha fatto comparire su Rivista Studio un articolo di Davide Coppo. Sotto un quintale di premessite – «per una certa porzione di popolazione con un certo reddito e un certo numero di metri quadri di casa a disposizione e senza malattie invalidanti» – diceva che il lockdown può costituire nostalgia, anche se è troppo presto per capire come e perché («un’isola si osserva nella sua interezza solo quando la si lascia su un traghetto, dopo diverse miglia»: ah, anche poeta).
Però citava un podcast (le cose che mi perdo ignorando i podcast) in cui Paolo Giordano si sarebbe detto stranito da come «nella mente di molti di noi la pandemia invece che un eccesso di morte, sofferenza, mancati funerali, mancati addii ai cari sia diventato più un sinonimo del nostro isolamento, e che addirittura si sia diffusa una specie di nostalgia strana verso quella forma di vita ristretta». Vita ristretta, ecco la mia ambizione, vedi che servono gli scrittori a trovare le parole giuste.
L’articolo di Coppo andava a parare verso il rallentamento, il quiet quitting, e quelle altre pose di chi si percepisce vittima del logorio della vita moderna e produttivo come un giapponese. Ed è allora che ho pensato al mio indicibile, durato purtroppo poco più d’un mese.
Il primo mese di clausura obbligatoria, io ho dormito nove ore a notte. Era da quando c’era la lira che non ero così rilassata, finalmente libera da tutti i dai vieniti a pigliare un gin tonic sennò non ci vediamo mai, da tutti i ma non passi in redazione a salutarci, da tutti quelli che vogliono vedersi dopo che in una giornata ci siamo scambiati quattrocento WhatsApp e non abbiamo più niente da dirci ma mica vorremo saltare questa partita a padel e sembrare dei sociopatici di merda.
Poi è successo quel che succede quando tutti stanno in casa: che gli stilisti hanno pensato che quelli per pubblicizzare abiti da sera fossero investimenti improduttivi, e i giornali di moda non hanno avuto più soldi per pagare le mie collaborazioni e i miei capricci. Se si fosse trovato un modo di conciliare lo stare tutti a casa e l’avere un reddito, sarei stata per sempre una donna felice. Magari bastava chiamarlo quiet quitting, vai a sapere.