Doppio fronteL’Iran non attaccherà Israele (per ora), ma invierà missili balistici alla Russia

Gli ayatollah rimandano per il momento la rappresaglia contro lo Stato ebraico per l’uccisione di Ismail Haniyeh, mentre continuano a sostenere Putin nella guerra di invasione dell’Ucraina

AP/LaPresse

Da un lato la promessa, finora non mantenuta, di una “punizione severa”, dall’altro il rinnovamento di un sodalizio ben collaudato. È un Iran bifronte quello che congela la ritorsione contro Israele e si prepara a consegnare missili balistici Fateh 110 alla Russia. Come riportato da Bloomberg, Teheran continuerà a sostenere l’invasione di Vladimir Putin in Ucraina con l’invio di vettori di lancio di circa centoventi chilometri di gittata, aumentando la potenza di fuoco di Mosca.

La fornitura dei Fateh 110 è frutto di accordi stretti tra le due potenze nel dicembre scorso e implementa la già cospicua quantità di armamenti mandata dall’inizio della guerra su Kyjiv. Dunque non solo droni kamikaze Shahed, dotati di una capacità operativa di circa millesettecento chilometri, e missili Zolfaghar, con un raggio d’azione compreso tra i trecento e i settecento chilometri. Ma anche missili balistici a corto raggio in grado di viaggiare a una velocità molto superiore rispetto a droni e missili da crociera, e capaci di trasportare carichi esplosivi più pesanti.

L’acquisizione dei Fateh 110 migliorerà notevolmente l’arsenale di Putin, che negli ultimi attacchi ha potuto contare su missili di produzione propria, gli Iskander, e missili fabbricati in Corea del Nord, altro paese fortemente legato alla Russia. L’iniziativa di Teheran rinsalda così la partnership militare con Mosca e porta avanti un’alleanza in chiave anti-occidentale che dura da oltre due anni.

La pericolosità dei nuovi armamenti, d’altra parte, potrebbe indurre la Nato a dare il via libera a Kyjiv sull’uso di armi occidentali sul suolo russo (al momento l’Ucraina può attaccare la Russia sul proprio territorio solamente con mezzi autoprodotti, quali i missili anti-nave Neptune e i vettori da crociera Palyanitsa). Questo nodo, al centro del dibattito politico di diversi paesi tra cui l’Italia, potrebbe rivelarsi decisivo in una fase del conflitto in cui la Russia prosegue da settimane la propria avanzata in Donbas, complici l’inferiorità numerica degli ucraini sul campo e l’insufficienza dei mezzi militari a disposizione delle truppe di Volodymyr Zelensky. Nella regione di Donetsk, in particolare, le conquiste riportate dall’esercito di Putin nel mese di agosto sono state superiori a quelle dei precedenti sette mesi del 2024.

La decisione di Teheran di mandare i Fateh 110 non rimarrà senza conseguenze. È infatti molto probabile che questo ennesimo spalleggiamento alla Russia porterà a un aumento delle sanzioni ai danni del Paese mediorientale. A fare le spese del sempre maggiore isolamento dalla comunità internazionale sarà la popolazione iraniana, a lungo vessata da una grave crisi economica in più parti del Paese. Si stima che circa un terzo degli iraniani viva sotto la soglia della povertà e che il tasso di inflazione annuale della moneta nazionale, il Rial, si attesti intorno al quaranta percento. Chi può, dunque, lascia il Paese: sono circa centocinquantamila gli iraniani che ogni anno varcano il confine nazionale in cerca di un futuro migliore all’estero, la “fuga di cervelli” più numerosa al mondo.

Chi resta invece fa i conti con il regime liberticida della Repubblica Islamica. Secondo l’organizzazione per i diritti umani Hengaw, in agosto almeno novantaquattro persone detenute sono state giustiziate, segnando un aumento del settantuno per cento rispetto al mese precedente. Mentre sono novantatre i nuovi arresti, quaranta dei quali di etnia curda, una minoranza etnica particolarmente presa di mira dagli ayatollah. Come spiegato a Linkiesta da Rayhane Tabrizi, attivista iraniana e presidente dell’associazione Manaà, l’elezione del presidente moderato Masoud Pezeshkian non ha interrotto le violenze del regime nei confronti dei dissidenti, anzi «continuano le impiccagioni e i maltrattamenti nelle carceri, soprattutto nei confronti delle donne. Nei giorni scorsi una ragazza è stata vittima di gravi violenze da parte delle guardie carcerarie. Dopo essere stata in coma per qualche tempo, è stata rilasciata dal carcere ma non è più in grado di camminare».

A complicare ulteriormente il quadro c’è la guerra con Israele. Lo scorso 31 luglio il capo politico di Hamas è stato ucciso a Teheran in un attacco compiuto molto probabilmente da Israele, sebbene Tel Aviv non abbia mai rivendicato alcuna responsabilità. A seguito di questo episodio, l’ayatollah Alì Khamenei aveva promesso una “punizione severa” nei confronti dello Stato ebraico. È passato oltre un mese da quella minaccia e della risposta di Teheran non c’è ancora traccia, se non attraverso i suoi proxy.

«Probabilmente non ci sarà nessun attacco contro Israele – dice Farian Sabahi, ricercatrice senior in Storia contemporanea dell’Università dell’Insubria e autrice del libro “Storia dell’Iran: 1890-2020” (Il Saggiatore, 2020) – In questo momento uno scontro con Tel Aviv manderebbe a monte il progetto della leadership iraniana di tornare al tavolo dei negoziati e alleggerire così le sanzioni occidentali». Aprire il fuoco contro Israele sarebbe dunque controproducente per un governo che intende riportare i rapporti con gli Stati Uniti sui binari del dialogo. Secondo Sabahi, l’Iran starebbe cercando di riprendere i negoziati con gli Stati Uniti intorno al nucleare, ripristinando il Jcpoa del 2015.

Nove anni fa le due potenze avevano trovato un accordo che prevedeva da un lato la diminuzione dell’arricchimento di uranio da parte dell’Iran (scongiurando di fatto il rischio di proliferazione nucleare), e dall’altro l’alleggerimento delle sanzioni economiche e finanziarie da parte degli Stati Uniti nei confronti di Teheran. Nel 2018, però, l’amministrazione Trump si era ritirata in via unilaterale dall’accordo nucleare con gli ayatollah, riaprendo la stagione delle restrizioni finanziarie e commerciali per l’Iran. «La scelta dei ministri del nuovo governo di Pezeshkian rivela che Teheran vuole tornare a negoziare con Washington – sostiene Sabahi – Sia Zarif, oggi vicepresidente per Affari strategici, che Aragchi, attuale ministro degli Esteri, erano nel team dei negoziatori iraniani del 2015». 

L’intesa tra Iran e Occidente non pare dunque una prospettiva così lontana, specie ora che è stato eletto un presidente moderato come Masoud Pezeshkian. Tuttavia, secondo Luigi Toninelli, Assistente di ricerca dell’Ispi per l’area Medio Oriente e Nord Africa, «l’accordo tra le parti non potrà ricalcare il Jcpoa, essendo cambiati i presupposti rispetto ad allora. I progressi fatti dalla Repubblica Islamica e i fallimenti dell’azione sanzionatoria statunitense hanno infatti messo in luce come i parametri del 2015 siano ormai superati». Va inoltre considerato che negli ultimi sei anni Teheran ha aumentato gradualmente i livelli di arricchimento dell’uranio, e ora rivendica la capacità di realizzare bombe atomiche.

Ma non si potrà parlare di accordo – quale che esso sia – senza prima conoscere le volontà degli ayatollah in merito al conflitto con lo Stato ebraico, e indirettamente con gli Stati Uniti. «L’Iran non intende dare luogo a un’escalation nella guerra con Israele ma è costretta a rispondere, se non vuole farsi percepire come debole sia a livello regionale che interno», sostiene Toninelli. L’immobilismo di fronte a una provocazione ricevuta potrebbe dunque nuocere alla credibilità degli ayatollah. Sulle modalità della risposta Toninelli ipotizza che ci sarà «un attacco a Israele non sul suo territorio, quindi una ritorsione asimmetrica». In alternativa, Teheran opterà per «una risposta coordinata con i suoi alleati regionali per colpire Israele tentando di non ingenerare tensioni maggiori».

Per il momento, però, tutto tace. Secondo Toninelli, sarebbero quattro le ragioni che spiegherebbero questo temporaneo silenzio. «Innanzitutto, c’è la necessità di progettare in maniera adeguata e credibile un’offensiva che possa ripristinare la deterrenza regionale. In secondo luogo, l’Iran ha dovuto attendere l’esito dei più recenti negoziati tra Israele e Hamas per pianificare la propria mossa. Un terzo fattore riguarda l’Asse della Resistenza, di cui l’Iran è il principale attore: Teheran deve valutare la convenienza di un ulteriore attacco autonomo di Hezbollah – come avvenuto lo scorso 25 agosto in risposta all’uccisione del capo militare Fuad Shukr – o di un’offensiva coordinata. Infine, è possibile che l’Iran, constatato il momento di difficoltà di Israele – sia a livello interno che internazionale, abbia preferito non attaccare, sposando così la massima “quando il tuo nemico è nel panico, meglio non far nulla”».

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