Crisi su pellicolaLe opere presentate a Venezia che sfidano le nostre certezze

Tra la dolceamara nostalgia di fine estate e l’urgenza delle tematiche contemporanee, ecco una selezione dei film dell’Ottantunesima Mostra del Cinema di Venezia che affrontano conflitti, crisi climatiche e politiche dell’orrore, invitandoci a riflettere su una verità sempre più complessa e ambigua

“Campo di Battaglia”, di Gianni Amelio. Courtesy: La Biennale di Venezia

«L’estate sta finendo e un anno se ne va», cantavano negli anni Ottanta i Righeira. Un ricordo di un’atmosfera dolceamara che mio padre ha iniettato nella mia immaginazione con le cassette nello stereo della sua ​​Mégane Scenic. Anche ora, l’estate sta finendo ed è facile avvertirlo: le giornate si fanno via via più corte, e le città tornano a riempirsi così come i nostri pensieri, dopo una pausa che ha scalfito a malapena la nostra stanchezza.

Eppure, un ultimo soffio d’incanto si sparge su questa stagione: l’Ottantunesima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, rendendoci tutti, seppur in modo diverso, spettatori attenti, curiosi e affascinati. Sarà perché sin dai tempi in cui Federico Fellini e Luchino Visconti si contesero il Leone d’Argento con due film rappresentativi di stili e visioni diametralmente opposte – “La strada” di Fellini, un’opera poetica e intimista, e “Senso” di Visconti, un affresco storico e politicamente impegnato – la Mostra ha sempre affrontato il “problema” della rappresentazione del mondo. Ha saputo far convivere punti di vista diversi, spingendo quei primi spettatori al confronto, e ha cercato di leggere le realtà passate e in atto, a volte captando anche quelle future.

Quest’anno il confronto con la complessità del mondo è diventato ancora più centrale. Come ha sottolineato lo stesso Alberto Barbera, direttore della Mostra, nel comunicato stampa ufficiale «i festival cinematografici non esistono e non si producono all’interno di una bolla fisica e temporale, priva di rapporti con tutto ciò che accade nel mondo contestualmente alla loro realizzazione. (…) Al contrario, il cinema è sempre stato una formidabile occasione, in generale, di riflessione e rispecchiamento dei temi afferenti all’umano e, in particolare, uno specchio dei problemi della contemporaneità, una finestra spalancata sui conflitti continui, le irrisolte contraddizioni, gli scontri insorgenti e le tragedie inattese che incombono sul martoriato pianeta».

Ed effettivamente se ciò che il cinema oggi offre non è soltanto un momento di evasione, ma una vera occasione per affrontare la nostra confusione adottando prospettive diverse (e talvolta controverse), ecco che dal programma di quest’anno è emersa chiaramente una lista di autori che, consapevoli delle polemiche che loro opere potrebbero facilmente suscitare, hanno comunque scelto di dare voce alle questioni più pressanti del nostro tempo: i conflitti armati, la catastrofe climatica, l’emergenza connessa ai fenomeni migratori e la crescente diffusione di movimenti populisti, suprematisti e nazionalisti che si contrappongono alle democrazie tradizionali.

L’arte non è la realtà e viceversa, eppure queste due dimensioni si intrecciano in modo profondo. In mezzo al costante frastuono delle notizie che ci sommergono sotto forma di infiniti contenuti social, speciali di notiziari e articoli scritti alla velocità con cui un chicco di mais diventa pop-corn, l’arte rimane il “traghettatore” di frammenti di verità che preferisco. Forse perché si prende il suo tempo, o perché credo sia l’unica a non volerci lasciare impotenti nell’angoscia. O ancora, perché nella costruzione e nell’ambiguità, l’arte non ha mai visto strumenti per allontanarci dalla verità, ma piuttosto – e so che può sembrare paradossale – per renderla più comprensibile e interiorizzabile. Su questo mi rendo conto che sarebbe opportuno dilungarsi un po’ e preferisco che a farlo siano i film.

Alla luce di tutto ciò, mi limito a condividere la mia prospettiva personale (una tra tante, e quindi da accogliere con il giusto scetticismo): una selezione di titoli, tra le opere in concorso e fuori concorso in Laguna, che vi consiglio di inserire nella vostra watchlist per i prossimi mesi. Non con la presunzione che vi rivelino la verità, ma con la speranza ma che possano arricchire il viaggio personale che ognuno di noi compie attraverso la propria confusione.

“2073” di Asif Kapadia
“2073” non è un’opera di finzione né un documentario: è un monito. Ispirandosi all’iconico film sperimentale di Chris Marker del 1962, “La Jetée”, Asif Kapadia ci offre un’anteprima del mondo che verrà se non affrontiamo le crisi che devastano il nostro presente. Seguiamo così le orme di Ghost, (interpretata da Samantha Morton), che vive isolato dal sistema in una distopica New San Francisco nell’anno 2073. Ultracapitalisti, dittatori e tecnogeek sono saliti al potere, annientando i diritti individuali e la libertà.

In questa società autoritaria e ipertecnologica ogni individuo è costantemente sorvegliato. Le persone continuano a scomparire misteriosamente e anche Ghost, mentre esamina i filmati d’archivio e le ricostruzioni degli eventi che in cinquant’anni hanno condotto il mondo alla rovina – dal declino della democrazia e l’ascesa del neofascismo al disastro climatico e al dilagare dei sistemi di sorveglianza – sa che i suoi giorni sono contati. Kapadia ha sottolineato che non si tratta di fantascienza: «Il film è iniziato dopo che nel Regno Unito menzogne e corruzione hanno portato alla Brexit e ho sentito il dovere di fare un film per capire perché il mondo sembrava muoversi nella direzione delle bugie, dell’autoritarismo e della violenza. Ho intervistato giornalisti in tutto il mondo: ero io che stavo impazzendo o stava succedendo davvero qualcosa?».

“2073”, di Asif Kapadia. Courtesy: La Biennale di Venezia

“Pisni zemli, shcho povilno horyt (Songs of Slow Burning Earth)” di Olha Zhurba
Olha Zhurba crea un potente diario audiovisivo che cattura la discesa dell’Ucraina nell’abisso della guerra totale, descrivendo i sottili ma devastanti cambiamenti che nel corso di due anni hanno progressivamente mutato e stravolto la società ucraina. Nel suo documentario, paesaggi, suoni e incontri casuali si intrecciano dentro e fuori l’inquadratura, riportandoci alle prime settimane dell’invasione russa, segnate dal panico, dall’orrore e gradualmente da un’accettazione quasi paralizzante della morte e della distruzione. Zhurba, tuttavia, non si ferma al racconto della tragica normalizzazione della guerra: il suo lavoro riesce a dare voce a chi, tra la nuova generazione di ucraini, prova a immaginare un futuro. Qualcosa che risuona prepotentemente in mezzo al disastro collettivo, ma che per il resto del mondo è un brusio impercettibile.

“Pisni zemli, shcho povilno horyt (Songs of Slow Burning Earth)”, di Olha Zhurba. Courtesy: La Biennale di Venezia

“Why War” di Amos Gitai
Il film prende ispirazione dallo storico scambio di lettere avvenuto nel 1932 tra Albert Einstein e Sigmund Freud, quando il fisico tedesco fu invitato dalla Società delle Nazioni a indirizzare una lettera su qualsiasi argomento a un destinatario scelto da lui. Einstein scelse di rivolgersi a Freud, ponendogli una domanda tanto semplice quanto fondamentale: «Perché la guerra?». Partendo dall’attualità di questo scambio epistolare e dai contributi di altri e altre intellettuali come Virginia Woolf e Susan Sontag, Gitai dà forma a una riflessione filosofica sulle origini della guerra, cercando di spiegarne la ferocia e la persistenza nella storia umana: «I film evitano di mostrare l’iconografia e le fotografie degli orrori della guerra e della distruzione che continuano ad alimentare le guerre. Come scrisse Sigmund Freud ad Albert Einstein, concludendo la sua lettera, “Nel frattempo, possiamo dire a noi stessi: tutto ciò che funziona per lo sviluppo della cultura funziona anche contro la guerra”».

“Why War”, di Amos Gitai. Courtesy: La Biennale di Venezia

“Separated” di Errol Morris
«Come rendere l’idea degli orrori delle politiche di frontiera degli Stati Uniti senza ripetere cose già viste fino alla nausea? Come cogliere la realtà emotiva di fondo di ciò che sta accadendo?»

Queste sono le domande che Erol Morris si è posto realizzando un documentario che affronta uno dei capitoli più oscuri della storia recente degli Stati Uniti: la politica di separazione familiare adottata dall’amministrazione Trump, che ha strappato migliaia di bambini dalle braccia dei loro genitori al confine tra Stati Uniti e Messico. Attingendo dal libro di Jacob Soboroff, corrispondente politico e nazionale della NBC, Morris crea un ponte tra documentario e finzione narrativa per mettere in luce una verità disturbante: la crudeltà non è stata un effetto collaterale, ma il vero obiettivo di questa politica.

Così le scene interpretate da Gabriela Cartol e Diego Armando Lara Lagunes, che mostrano una famiglia in fuga, lacerata e distrutta dal suo arrivo negli Stati Uniti, come centinaia di altre famiglie si intrecciano alle voci di persone raramente ascoltate dai telegiornali: Elaine Duke, ex capo ad interim del Dipartimento della sicurezza interna; Jallyn Sualog, un burocrate dell’Ufficio per il reinserimento dei rifugiati, il dipartimento mal gestito costretto a prendere in custodia i bambini separati; e Jonathan White, che ha deciso di mettere a repentaglio la sua carriera per raccontare una storia che andava raccontata. Un insieme che ci rende più consapevoli e ci lancia un chiaro avvertimento: stiamo per permettere che accada di nuovo​.

“Riefenstahl” di Andres Veiel
“Riefenstahl” esplora la controversa figura di Leni Riefenstahl, regista associata al regime nazista che fino agli ultimi anni della sua vita ha cercato di manipolare la propria immagine pubblica per ripulire la sua reputazione, eliminando prove compromettenti dai suoi archivi personali. I suoi film più noti, “Triumph des Willens” (Il trionfo della volontà) e “Olympia”, furono creati per rafforzare la propaganda nazista, celebrando il culto del corpo e la superiorità razziale. Tuttavia, a partire dal dopoguerra, Riefenstahl si è autodefinita un’artista apolitica, sostenendo di essersi limitata ad eseguire commissioni senza un reale coinvolgimento ideologico.

Il documentario di Andres Veiel sfida apertamente questa versione dei fatti, utilizzando un vasto materiale d’archivio, perlopiù inedito, tra cui cinquantamila fotografie e numerosi filmati privati, lettere e registrazioni provenienti dal fondo Riefenstahl. Veiel pone una domanda centrale: come è possibile che Riefenstahl sia diventata la regista ufficiale del Reich pur negando qualsiasi legame stretto con Hitler e Goebbels? «Nel contesto odierno, un film su di lei è diventato per me una necessità urgente. Il suo considerevole ascendente, reinterpretato attraverso la lente del suo fondo privato, offre l’opportunità di riesaminare il continuo fascino della grandezza imperiale e la glorificazione di corpi muscolosi, perfetti e vittoriosi: una tendenza che oggi sta ritornando di moda», ha raccontato Veiel, suggerendo anche che il tentativo di Riefenstahl di dissociarsi dal nazismo è un monito sui pericoli della manipolazione storica e dell’estetizzazione della politica. Temi oggi più che mai rilevanti.

“Riefenstahl”, di Andres Veiel. Courtesy: La Biennale di Venezia

“Jouer avec le feu” di Delphine Coulin e Muriel Coulin
Adattamento del romanzo “Ce qu’il faut de nuit” di Laurent Petitmangin (2020), esplora le complesse dinamiche di una famiglia francese contemporanea, profondamente segnata dalla perdita e dalle tensioni politiche. Pierre (Vincent Lindon), padre cinquantenne, si trova a crescere da solo i suoi due figli dopo la morte della moglie. Mentre Louis (Benjamin Voisin​), il figlio minore, è pronto a lasciare la casa per studiare all’università a Parigi, Fus (Stefan Crepon), il figlio maggiore, diventa sempre più introverso e si avvicina a gruppi estremisti di destra.

Questa militanza lo allontana dai valori paterni, portando la famiglia verso un punto di rottura. «Continuerei a voler bene a mio figlio se sviluppasse idee diametralmente opposte alle mie? Resterebbe mio figlio o il cambiamento sarebbe tale da trasformarlo in un estraneo da ripudiare? Siamo in grado di perdonare proprio tutto?», si chiedono entrambe le registe. In un contesto politico sempre più polarizzato, la storia di questa famiglia diventa una metafora delle sfide che affrontano molti paesi, tra conflitti generazionali, vergogna, e il difficile percorso verso la riconciliazione.

“Jouer avec le feu”, di Delphine Coulin e Muriel Coulin. Courtesy: La Biennale di Venezia

“Campo di Battaglia” di Gianni Amelio
Cosa saremmo disposti a fare pur di evitare il campo di battaglia a noi e agli altri? Questa è la domanda centrale che attraversa il film di Gianni Amelio, un’opera che ci trasporta negli ultimi giorni della Prima Guerra Mondiale, all’interno di un ospedale militare. Qui, due ufficiali medici, amici fin dall’infanzia, si trovano a fronteggiare le atrocità della guerra sviluppando due modi di pensare la giustizia diametralmente opposti.

La situazione nell’ospedale è disperata. Ogni giorno dal fronte arrivano soldati in condizioni sempre più critiche, molti dei quali si sono autoinflitti le ferite pur di non tornare a combattere. Stefano (Alessandro Borghi), cresciuto in una famiglia altoborghese con aspirazioni politiche, sviluppa un’ossessione per questi autolesionisti e inizia a indagare su di loro per denunciarli. Al contrario, Giulio (Gabriel Montesi), che ha sempre disprezzato la guerra e la violenza, nutre una maggiore comprensione e tolleranza verso questi soldati. Nel frattempo, qualcosa di strano inizia ad accadere tra i malati: molti di loro peggiorano in modo inspiegabile, sollevando il sospetto che qualcuno stia intenzionalmente complicando le loro ferite per evitare che vengano rimandati al fronte. Questo dubbio aumenta le tensioni tra Stefano e Giulio e anticipa implicazioni che vanno oltre il contesto bellico.

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