Immaginiamoci per un attimo un vicino di casa, uno di quelli con i quali bisogna fare qualche sforzo per andare d’accordo. Con questo vicino, la parete comune è di oltre milletrecento chilometri. Il giorno in cui il suo vicino di casa ha messo in mostra tutta la sua imprevedibilità ed aggressività, alla Finlandia non sono rimaste molte scelte. Le ha dovute fare Pekka Haavisto, sessantasei anni, veterano delle missioni diplomatiche Onu, ecologista e ministro degli Esteri del suo paese fra il 2019 e il 2023. Linkiesta lo ha incontrato a margine di un convegno organizzato presso l’Istituto Nobel ad Oslo.
Lei è l’uomo che ha condotto la Finlandia nella Nato dopo oltre un secolo di neutralità e relativa amicizia con la Russia. Com’è accaduto?
Quando la Russia ha invaso l’Ucraina nel Febbraio del 2022, l’opinione pubblica finlandese è cambiata nottetempo, ma noi stavamo già monitorando da mesi i movimenti delle truppe russe vicino al confine ucraino, mentre Vladimir Putin già a dicembre aveva annunciato che un allargamento della Nato sarebbe stato interpretato come un segnale ostile alla Russia, senza fare riferimenti all’Ucraina. In quel momento, abbiamo realizzato che stava limitando le scelte a disposizione della Finlandia, che comunque già dal 1995, con il governo di Paavo Lipponen, aveva un’opzione di accesso all’Alleanza Atlantica nel caso le condizioni di sicurezza in Finlandia e nell’Area Baltica fossero mutate. Da ministro degli Esteri ho incontrato i gruppi parlamentari, chiarito la posizione del governo e questo è stato accolto da tutti i partiti, un caso piuttosto unico che ha incluso anche il mio partito (i Verdi) e la Sinistra. Poi, dopo aver informato Antony Blinken, alcuni paesi membri della Nato si erano chiesti se questo fosse il momento giusto o potesse rappresentare una escalation, ma la principale difficoltà è stata avere la Svezia dalla nostra parte, perché se si guarda la mappa, in una situazione di crisi è molto difficile trasportare materiale o aiuti verso la Finlandia senza passare dalla Svezia. Quando parlai con la mia omologa svedese Ann Linde, lei disse che non sarebbe mai successo e che avevano alle spalle duecento anni di neutralità e che a loro andava bene così, ma nel giro di una settimana hanno cambiato idea. Qui hanno fatto un grande lavoro i socialdemocratici finlandesi per convincere la controparte svedese, in particolare l’ex ministro degli Esteri Erkki Tuomioja.
Non è stata una strada priva di ostacoli.
Dopo il summit estivo di Madrid, era chiaro che c’erano due paesi contrari: la Turchia per alcune questioni interne e l’Ungheria in reazione a come si sono sentiti trattati nell’UE. Abbiamo dovuto lavorare con diplomazia, ma il momento più complicato è stato nel 2023 quando ci sono stati i roghi del Corano e di alcune figure ritraenti Erdogan in Svezia. A quel punto i percorsi si sono separati ed è stato un momento spiacevole perché contavamo di entrare contemporaneamente, per fortuna poi anche loro sono riusciti a ottenere il via libera, nel frattempo avevamo messo a punto l’accordo di difesa bilaterale con gli Stati Uniti e questo ha aiutato a far comprendere all’opinione pubblica il significato della cosa. A quel punto avevamo calcolato tutti i possibili rischi per la sicurezza, ci aspettavamo violazioni dello spazio terrestre, aereo o marittimo, ma con l’eccezione di alcuni disturbi al sistema Gps, non è accaduto praticamente nulla. Come nuovi membri della Nato abbiamo dovuto fare un corso accelerato per metterci in pari, ci sono decine o centinaia di gruppi di lavoro per i quali abbiamo dovuto selezionare dei professionisti da mettere a disposizione, in particolare per quei portafogli più delicati: entrare nella Nato ci ha messo davanti alla gestione degli armamenti nucleari, ma la nostra preoccupazione era quella di poter lavorare nell’ambito della cooperazione nordica con Svezia e Norvegia.
Siamo di fronte ad una fondamentale scadenza elettorale, le elezioni americane. Lei ha lavorato sia con l’amministrazione Biden che con quella precedente. Se a Novembre vincesse Kamala Harris sappiamo più o meno cosa aspettarci, ma se dovesse tornare ad essere presidente Donald Trump?
Nel Nord Europa c’è chi sostiene che non cambierà nulla per il semplice fatto che gli Stati Uniti sono obbligati a mantenere i propri interessi nel continente perché senza di questi cesserebbero di essere una superpotenza. Questo ovviamente è vero, ma se guardiamo alle rispettive agende ci sono grandi differenze: una è sicuramente il cambiamento climatico, specialmente nell’ambito della cooperazione nel Consiglio Artico. Da ministro degli Esteri ho incontrato più volte Mike Pompeo, il Segretario di Stato durante la presidenza Trump, ed era ovvio che non fosse possibile menzionare le nostre preoccupazioni sull’ambiente e sul cambiamento climatico. È stato un momento doloroso ed è qui che le nostre differenze sono maggiori.
Per quanto riguarda la Nato?
Ne ho discusso anche con l’ex segretario generale Stoltenberg e mi ha assicurato che l’amministrazione Trump ha mantenuto le sue priorità in Europa e, in alcuni casi, ha aumentato le truppe in dotazione. D’altronde aveva auspicato che i paesi europei destinassero il due per cento del Pil alla difesa e questo sta più o meno già accadendo. Certamente, quando Trump guarda all’Europa vede più Londra che non Bruxelles, mentre per l’amministrazione Biden l’Unione Europea rimane un’entità importante.
Questo solleva la questione della difesa comune europea
Da quello che vedo, la nuova commissione sarà orientata verso la difesa e l’industria militare, questo significa che sta andando nella direzione sancita dall’articolo 42.7 del Trattato di Lisbona. Storicamente, paesi come la Francia, e spesso anche la Finlandia, hanno sempre richiesto garanzie di sicurezza e piani di addestramento e la risposta è sempre stata che ci avrebbe pensato la Nato, ma se guardiamo l’immagine nel suo insieme adesso l’Ue sta facendo la propria parte, ad esempio con la mobilitazione generale per sostenere l’Ucraina, qualcosa che la Nato non ha potuto fare.
L’attuale segretario generale della Nato, Mark Rutte, nel 2020 disse che bisognava rifondare l’UE per superare gli ostacoli posti da Polonia e Ungheria. In questi giorni Mario Draghi ha auspicato un Piano Marshall per risollevare l’economia europea. Qual è la sua visione, specie considerando l’ascesa delle forze euroscettiche?
Ci sono due sfide: la prima è quella che stiamo vedendo con il rigurgito di tendenze nazionalistiche, di forze che sono convinte che i paesi debbano pensare a loro stessi senza doversi curare dell’Ucraina o del resto, come se non li riguardasse. Mi auguro che questo si arresti, stiamo tutti seguendo con attenzione gli sviluppi elettorali in Germania o in altri paesi. Poi c’è un’altra questione ed è quella dell’atteggiamento degli stati membri: prima la Polonia, per un po’ l’Austria quando al governo c’era la FPÖ, ora l’Ungheria. Il mio consiglio è quello di aver pazienza, perché queste dinamiche non durano per sempre, ad esempio in Polonia adesso c’è un nuovo governo. E questo si lega alla questione dell’allargamento ad est, la cui rapidità è aumentata considerevolmente, non solo con l’Ucraina, ma anche con i Balcani occidentali, come Albania o la Macedonia del Nord, mentre in Moldova ci sarà un referendum sull’accesso UE in autunno. Prima, anche in Finlandia, si guardava a questi paesi pensando che sarebbero stati solo un peso economico e che non erano sufficientemente sviluppati, oggi capiamo che la questione è più politica, con l’influenza che la Russia e la Cina adoperano. E io sono favorevole all’allargamento della famiglia europea.
Non teme che l’effetto della regola dell’unanimità possa rendere l’Europa ingovernabile?
Credo che un buon compromesso sia la regola del consenso generale meno uno, questo sarebbe sufficiente ad evitare situazioni in cui un solo paese blocca l’intero processo per ragioni completamente estranee. Più in generale, abbiamo visto come, quando l’Europa è unita, riesce ad esprimere un vero potere politico come nel caso dell’Ucraina dove siamo un attore fondamentale, mentre per il conflitto a Gaza, dove non abbiamo una posizione comune, viene a mancare il suo peso politico e non riusciamo ad offrire soluzioni.
Lei è stato il primo esponente ecologista al mondo a diventare ministro nel 1995, oggi i Verdi per la prima volta sono entrati nella maggioranza che sosterrà Ursula Von der Leyen. Se lo aspettava trent’anni fa?
Vengo da un passato come attivista, anche all’epoca credevamo che il mondo stesse bruciando a causa dell’inquinamento e della guerra, che non ci fosse tempo per la politica e che si dovesse passare all’azione immediata. Quella è stata un po’ la ragione per cui sono nati i Verdi come partito, e quando parlo con i giovani attivisti per il clima dico “Vi capisco, perché ho condiviso la vostra attitudine, ma con il tempo si calmerà”. Può sembrare che sia passato molto tempo, ma io ricordo che alla nostra prima manifestazione per l’energia eolica tutti ci ridevano dietro, dicendo che non sarebbe mai successo, e invece oggi le rinnovabili in Finlandia generano più energia delle centrali nucleari. In questo senso, abbiamo veramente svoltato l’economia in termini di investimenti, non si tratta solo di Greenwashing, e di questo non posso che essere soddisfatto.
A proposito delle rinnovabili, non è stato un errore lasciare questo vantaggio strategico alla Cina?
Quando sono stato inviato nel Darfur, in Sudan, durante la crisi umanitaria, chiesi all’allora ministro degli Esteri di Khartoum cosa bolliva in pentola con la Cina e in che modo riuscivano a generare l’interesse dei paesi africani. Mi disse che negli anni Settanta la Cina era sovrappopolata e sembrava destinata ad esplodere, oggi questo problema non lo hanno più e che se l’Africa ha un problema di sovrappopolamento, la Cina offre la soluzione. Poi negli anni Novanta sembrava che la Cina fosse condannata ad una crescita scarsa, invece all’epoca viaggiava sul 5-6 per cento annuo. Poi lo stesso si è ripetuto con i gravi problemi ambientali, eppure è da lì che arrivano i generatori di energia eolica e solare più economici, anche in questo ambito la Cina ha offerto una soluzione. E poi il ministro mi disse, “Voi Europei cosa avete da offrirci?”. Penso sia una buona domanda, perché evidentemente la nostra proposta di cooperazione non è chiara, specie in una competizione come questa.