«Vi giuro che sarò con voi fino alla fine di questo viaggio in Europa, finché non arriveremo alla sua porta. E questo non è solo un nostro sogno, ma la nostra realtà. Non abbiamo né un altro futuro né un’altra scelta. E non vogliamo lasciare altro a questo Paese per le generazioni future: indipendenza, libertà, l’essere europei, e l’identità georgiana» la presidente Salome Zurabishvili si è rivolta così alla folla di manifestanti riunitasi, dopo l’appello della presidente stessa del giorno precedente, davanti al Parlamento, in viale Rustaveli a Tbilisi, per contestare i risultati delle elezioni parlamentari in cui il partito filorusso Sogno Georgiano è stato dichiarato vincitore, nonostante le accuse mosse dagli osservatori locali e internazionali di aver truccato le votazioni.
Dal palco, Giorgi Vashadze, del partito Strategia Aghmashenebeli (parte della coalizione Unity), ha spiegato in quattro punti la posizione dell’opposizione. Prima di tutto, le elezioni non si sono tenute in modo legittimo, inoltre i partiti di opposizione sono pronti a rinunciare ai loro seggi in Parlamento, e sono pronti a combattere fino alla vittoria. L’opposizione chiede all’unanimità l’annullamento dei risultati e un nuovo round di elezioni gestito da una commissione internazionale, e su questo non è disposta a scendere a compromessi con il governo che continua a tenere una falsa retorica pro europea, ma che in realtà adotta leggi di stampo russo.
Quando dagli altoparlanti si sentono le prime note dell’inno georgiano, Mari e Nini, due militanti che hanno fatto da osservatrici ai seggi, chiedono una pausa dall’intervista perché vogliono cantare. E quando l’inno finisce, Nini spiega a Linkiesta: «Le persone che sono venute a votare avevano paura. Gli hanno comprato il voto, hanno venduto il loro Paese per cinquanta lari. E lo capisco, hanno fame e non hanno mezzi per sopravvivere, ed è tutta colpa del governo». Mari aggiunge: «Dobbiamo combattere, non con le armi, ma con i cervelli. Siamo nate in una Georgia libera ed è lì che vogliamo vivere. Sogno Georgiano ha cercato di manipolare le persone poco istruite. L’istruzione è la chiave di tutto, e loro vogliono chiudere le organizzazioni che cercano di tenerci informati».
Anche Dima, un altro manifestante, racconta che «il motivo per cui la Georgia e un Paese come l’Estonia, che negli anni Novanta sembravano avere una traiettoria simile, oggi si trovano in due punti assolutamente diversi è che il nostro governo non ha mai voluto investire sull’istruzione, perché per loro è sempre stato conveniente avere un popolo poco informato».
L’informazione libera è stata una dei pilastri di una manifestazione che aveva l’obiettivo di mostrare al governo quanto la popolazione sia pronta a esporsi, senza paura, per far sapere a tutti gli osservatori internazionali la reale volontà degli elettori e della società georgiana, oltre che di denunciare le strategie usate da Sogno Georgiano per falsare i risultati delle elezioni: «Sinceramente non sono sicura che riusciremo a cambiare la situazione, ma contemporaneamente ho fiducia belle nuove generazioni. Se abbiamo anche solo l’uno per cento di possibilità di cambiare le cose vale la pena essere qui, mi basterebbe anche solo far sapere a una persona in più che cosa succede in Georgia», spiega Naia, una studentessa universitaria di Tbilisi.
Anche i leader politici che hanno parlato dalle gradinate del Parlamento sono convinti che la Georgia possa tornare a essere uno Stato democratico: «Non lasceremo che il Paese venga russificato», ha detto Nika Melia (Coalition for Change), facendo riferimento anche agli eventi del 9 aprile 1989, data in cui le autorità sovietiche hanno represso una manifestazione pro-indipendenza, uccidendo ventuno persone, la maggior parte donne: «Hanno sacrificato la loro vita per permetterci di andare avanti».
I manifestanti hanno risposto all’intervento con applausi e urla di approvazione, tenendo legate al collo le bandiere di Georgia e Unione europea. Alcuni, poi, hanno proiettato frasi di sfida contro il governo neoeletto: «Affittasi», «Ma non siete vecchi ormai?» «1984». Un metodo di contestazione pacifico (ma efficace), e coerente con l’atmosfera di serenità che si respira in viale Rustaveli.
«Io non vengo spesso alle proteste, ho una certa età. Ma sono stufa di sentir parlare di guerra, e qui so che sentirò parlare di pace. Non voglio altro: semplicemente che il mio popolo possa vivere in pace. E con questo governo non sarà possibile», mi dice Natalia, settant’anni. Anche Tina Bokuchava, leader della coalizione Unity, si è schierata contro i tentativi del partito in carica di far scoppiare un conflitto: «Non tollereremo l’operazione speciale russa che a Ivanishvili piace chiamare “elezioni”».
Il russo Dmitry Medvedev, intanto, ha accusato la presidente Zurabishvili di essere una «marionetta» e ha dichiarato che dovrebbe essere sollevata dal suo incarico e arrestata per aver organizzato un «colpo di stato» (ossia una protesta). Il Cremlino, comunque, non è stato l’unico attore internazionale a commentare le proteste e la situazione politica georgiana, anche se negli altri Paesi le accuse vengono mosse contro le azioni del partito.
Il viceministro per gli Affari esteri svedese Benjamin Dousa ha annunciato che il Paese scandinavo taglierà ogni tipo di cooperazione diretta con il governo georgiano (anche se, stando a quanto spiegato nell’intervista al giornale Dagen Nyheter, la decisione era già stata presa prima delle elezioni di sabato in risposta all’adozione della Legge sugli agenti stranieri).
Tredici ministri europei (ma nessun rappresentante italiano) hanno rilasciato una dichiarazione congiunta in cui si legge: «Le violazioni dell’integrità elettorale sono incompatibili con gli standard che ci si aspetta da un candidato all’Unione Europea. Tradiscono le aspirazioni europee del popolo georgiano, poiché il mantenimento dello Stato di diritto e di elezioni libere è parte integrante di qualsiasi progresso nel percorso della Georgia verso l’Ue». I ministri europei, sempre senza l’Italia, hanno inoltre criticato la visita a Tbilisi di Viktor Orbán, sottolineando come non rappresenti il pensiero della comunità europea.