GattopardismoLe tre riforme che bloccano la Sicilia e la legislatura del nulla di fatto

Dal sistema dei rifiuti alla gestione delle province, fino alla sanatoria edilizia, le riforme promesse dalla Giunta Schifani, vengono annunciate con entusiasmo, ma finiscono poi per arenarsi in discussioni sterili, conflitti di potere e compromessi poco efficaci

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Altro esame, altro rinvio. Se fosse uno studente universitario sarebbe una sorta di fuori corso d’antan, di quelli leggendari, tanti appelli, e mai nessuna materia. Ogni facoltà ha il suo fuori corso leggendario, che a un certo punto viene scambiato per uno che lavora in ateneo. Qui non siamo all’università, ma all’Assemblea Regionale Siciliana, e il fuori corso è il governo del presidente Renato Schifani, che in pochi giorni si  è trovato a vivere una scena vista, purtroppo, diverse volte: annuncio di una riforma importante per la Regione, dichiarazioni entusiaste, pronti, via, si va in commissione, prima dell’esame in aula, e poi, stop improvviso, tutto da rifare, per evitare la bocciatura clamorosa con tanto di crisi politica del centrodestra siciliano. Spiacenti,  sarà per un’altra volta. Ci vediamo al prossimo appello, e tanti saluti a casa.

Insomma, è una sequenza di colpi a salve, di passaggi a vuoto. E questa, ormai, sembra davvero la legislatura del nulla di fatto, come ironizzano dalle parti dell’opposizione. La maggioranza è spaccata, litiga su tutto. Ogni riforma annunciata parte vigorosa, rallenta, semina dubbi, poi nascono i litigi, i se e i ma, infine, si ferma. Si apparecchia la retromarcia per evitare guai. 

Alcune riforme neanche si fanno vedere più, perché suscitano malumori e polemiche solo all’annuncio: quella sui forestali, per risolvere una delle più gravi e grandi sacche di precariato creata dalla politica siciliana in questo ultimo mezzo secolo; quella sui consorzi di bonifica, enti carrozzoni il cui cattivo funzionamento spiega molto della siccità che attanaglia la Sicilia nonostante una settimana di nubifragi intensi. E infine, la riforma che scotta: quella sul sistema dei rifiuti, in Sicilia ancora bloccato alla vecchia logica delle discariche e con interessi milionari negli appalti per la gestione e la raccolta. 

Ma non sono queste le riforme che negli ultimi giorni hanno mandato in tilt la maggioranza. Sono altre. Tre. Un terzetto niente male. Il ddl Urbanistica, la riforma degli enti locali, e un classico che sa di modernariato: la riforma delle province. Ancora. Tutte stoppate prima del voto, per evitare guai. 

E così le riforme arrivano all’Ars, ma in realtà è una specie di rodeo. Cambiano gli ordini del giorno, le road map, si mischiano temi. Surreale la scena di qualche giorno fa: c’era in discussione la riforma dell’urbanistica, ma tutti gli interventi erano per commentare la legge sul ripristino dell’elezione diretta delle province, che in realtà in aula doveva ancora arrivare. È finita come nelle feste con i dj, quando a un certo punto le persone, nell’euforia della danza, chiedono i pezzi a richiesta. E così, viene ritirata la riforma urbanistica, ed ecco comparire davvero la legge sulle Province, il cui testo è stato partorito in un giorno. 

Andiamo con ordine. La legge urbanistica è quella che recepisce l’ultimo condono elettorale del ministro Matteo Salvini, la piccola sanatoria chiamata affettuosamente «salva – casa». Si è scoperto, infatti, che in Sicilia, per via dello statuto, la legge non si applica automaticamente, ma, per gran parte delle sue norme, va recepita con apposito provvedimento del parlamento siciliano. Non sia mai, allora, che governo e deputati siciliani non si mettano all’opera per “migliorare” questo testo, farlo proprio, diciamo. Ed ecco che sono cominciate le trattative per allargare le maglie del condono e cercare di infilare dentro anche il tema dei temi in fatto di urbanistica in Sicilia (e che mediamente torna ogni sei mesi): la sanatoria delle case abusive costruite sulla costa entro i centocinquanta metri dal mare. 

Tra mille polemiche, sono state introdotte nuove norme per la redazione dei piani regolatori, e a un certo punto è spuntata una prima sanatoria, ma solo per gli immobili confiscati alla mafia. La norma prevede la possibilità di “sanare” i beni tolti a Cosa nostra e assegnati dall’Agenzia per i beni confiscati agli enti locali, sottraendoli così alla demolizione. I Sindaci, infatti, spesso hanno nel loro patrimonio case e ville confiscate alla mafia, ma che sono totalmente abusive (strano, i mafiosi sono noti per il loro quasi ossessivo rispetto delle norme in materia edilizia …), e quindi inutilizzabili. 

La proposta è: saniamo questi beni, allora, altrimenti i sindaci non se ne possono fare nulla.  Per il presidente della commissione antimafia dell’Ars, Antonello Cracolici, «è una follia», perché, «si vuole rendere legittimo un bene confiscato per il solo fatto di essere stato confiscato. Rischiamo di dire  che i beni dei mafiosi, sebbene confiscati, possano continuare a esistere, al contrario di quelli dei normali cittadini». E, tra una polemica e l’altra la legge si è arenata, ed è tornata in commissione, dove, certamente, la sanatoria per salvare i duecentomila immobili costruiti sulle coste siciliane, molto cara a Fratelli d’Italia, troverà nuova forza. 

Stessa cosa per un’altra riforma che l’aveva preceduta, quella sugli enti locali. Anche lì, la necessita di armonizzare il sistema con quello nazionale ha dato la stura a tentativi di aumentare soprattutto il numero di assessori e consiglieri comunali. Anche lì, mille pasticci, la tentazione di eliminare la parità di genere, e poi il punto cieco. E così, le leggi fanno stop & go, vai e vieni: dalla commissione, all’aula, per poi passare di nuovo in commissione, in attesa di tempi migliori. 

Infine c’è la storia infinita delle province. In Sicilia sono state abolite un’era politica fa, nel 2012, quando governatore della Regione era il dem Rosario Crocetta, e l’opposizione era guidata dai Cinquestelle. L’aria era quella del repulisti, dei tagli alla casta, e nella furia iconoclasta Crocetta, che si dichiarava «più grillino dei grillini», tagliò le province, trasformandole in Liberi Consorzi, ma senza mai introdurre una riforma dell’ente, che manca da allora, e senza mai recepire la riforma fatta nel resto d’Italia.  

Da dodici anni, pertanto, questi enti sono in stato comatoso, retti da commissari regionali, e ci si è accorti della loro mancanza perché scuole superiori, strade provinciali, riserve, e tanto altro sono rimasti, in pratica, abbandonati. Da lì l’urgenza di ripristinare gli organi, ma sul come si litiga da anni: elezione diretta del presidente o  elezione di secondo livello,  (quelle in cui votano solo sindaci e consiglieri dei Comuni del territorio). 

Quando si imbocca una strada, un movimento uguale e contrario spinge per l’altra. E così, con le elezioni di secondo livello già indette da Renato Schifani per il 15 dicembre, ecco spuntare in aula un testo per stoppare tutto e introdurre l’elezione diretta. «Siamo l’unica Regione d’Italia rimasta senza province», dice sconsolato Marco Falcone, ex assessore e ora eurodeputato forzista, che vede all’orizzonte una «magra figura» e denuncia i «giochi di palazzo»

Il riferimento è al fatto che Schifani aveva riunito il centrodestra, per decidere le candidature, ma ognuno chiedeva di più. Come già avvenuto per la Sanità (e in quel caso Schifani aveva detto: «Mai più spartizioni») gli alleati si sono rinfacciati di tutto, fino alla decisione finale: rinviare, rinviare. Così, è la terza volta,  dopo la bocciatura di un anno fa e quella della scorsa estate, che la legge che reintroduce l’elezione diretta nelle ex Province torna all’Ars.

È stata scritta in fretta e furia. Sono pochi articoli, che reintroducono province, assessori e consiglieri provinciali,  ma, secondo molti osservatori, pongono tantissimi dubbi, sulla legittimità e sulla sua costituzionalità, dato che la Sicilia, in questo modo, cancellerebbe una riforma nazionale. «Ne parlano da due anni senza cavare un ragno dal buco e adesso vorrebbero approvarla in due settimane o poco più», dice la grillina Ardizzone. Oppure discuterla, poi fermarsi, passare ad altro. È la politica dello stop & go.

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