A Bolzano, in autunno, è tempo di Törggelen, la tradizionale festa di fine vendemmia prima dell’arrivo delle temperature rigide. Dopo una passeggiata sulle montagne che circondano la città, i masi e le osterie si popolano di folle di autoctoni e turisti che banchettano con canaderli e castagne, accompagnati dal mosto e dal vino appena imbottigliato. Nei vicoli della elegante città vecchia, si fatica a farsi largo tra chi sosta davanti a bar e birrerie. Ci sono gruppi di ragazzi che chiacchierano in tedesco, altri in italiano. Ma difficilmente si parlano tra loro.
Mentre in Alto Adige prevale per il settanta per cento la popolazione di lingua tedesca, a Bolzano, dove l’italianità è stata imposta dal regime fascista, le percentuali si invertono e a vincere è l’italiano. Ma nel capoluogo altoatesino alle porte delle Dolomiti – poco più di centomila abitanti – tutto è doppio. Dalle scuole ai nomi delle strade, dai partiti politici ai giornali locali, ogni cosa è divisa tra l’anima tedesca e quella italiana. Che si incrociano, forse, solo nei menù dei ristoranti, dove accanto ai canederli si possono trovare polpo arrosto e linguine allo scoglio. Oltre che nella squadra di calcio locale Südtirol – alla sua terza stagione in serie B dopo aver sfiorato la A nel 2023 – , l’unica in grado di riunire allo stadio Druso i tifosi di madrelingua italiana, tedesca e ladina (terza lingua più parlata da queste parti). Gli italofoni sono sparsi in tutti e cinque quartieri della città. Ma sono in minoranza nel centro storico, a Rencio e Gries.
«Dopo le violenze e il terrorismo, oggi nel quotidiano non ci sono grosse conflittualità», spiega lo storico Hans Heiss, per quindici anni esponente dei Verdi nel consiglio della Provincia autonoma. Tra la metà anni Cinquanta e gli anni Settanta, in tutto l’Alto Adige fu attivo il Comitato per la liberazione del Sudtirolo, un’organizzazione terroristica che voleva la secessione dall’Italia e l’annessione all’Austria, sostenuto anche da gruppi austriaci e tedeschi. La prima vittima ci fu nella “notte dei fuochi” tra l’11 e il 12 giugno del 1961, quando vennero fatti saltare quarantadue tralicci dell’alta tensione. Da lì in poi, il movimento si radicalizzò. In totale, si contarono oltre trecentosessanta attentati, con ventuno morti.
«Negli anni Sessanta-Settanta, per una persona di lingua tedesca sposare un italiano era visto come un sacrilegio. Oggi è una cosa normale. Ma esistono ancora pochi punti d’incontro tra le due comunità», dice Heiss. Le scuole sono nettamente separate. «Per cui chi frequenta la scuola italiana finisce per frequentare gli italiani, e lo stesso vale per i cittadini di lingua tedesca». Bar, pub, palestre, associazioni culturali difficilmente si sovrappongono.
L’amministrazione pubblica fa da punto d’incontro. Negli uffici è sempre garantita una rappresentanza di tutte le lingue. E la regola vuole che il sindaco sia sempre di lingua italiana, mentre il presidente della Provincia arriva dalla comunità tedesca. Il comune oggi è guidato da Renzo Caramaschi, indipendente di centrosinistra al secondo mandato. La provincia è guidata invece da dieci anni da Arno Kompatscher, esponente della Südtiroler Volkspartei, il partito locale oggi in maggioranza con Fratelli d’Italia e Lega, dopo una lunga alleanza con il Partito democratico.
Nelle scuole, oltre all’inglese, si insegnano sempre l’italiano o il tedesco. All’esame di maturità c’è una quarta prova nella lingua “opposta”. E l’università di Bolzano, dove da poco hanno inaugurato anche la facoltà di medicina, è l’unico ateneo d’Italia con corsi in ben tre lingue.
Vista dalla centrale piazza Walther, l’Italia sembra molto lontana. Gli italiani qui sono italiani sì, ma si sentono diversi. «Voi in Italia», è l’espressione più comune che ci si sente rivolgere quando si vogliono marcare le differenze. È l’autonomia, bellezza, direbbe qualcuno.
Con il secondo statuto del 1972 (poi modificato anche dalla riforma del titolo quinto del 2001), la provincia ha ottenuto un’ampia autonomia fiscale, che oggi fa sì che circa novanta per cento delle tasse pagate in Alto Adige resti sul territorio. Il che aiuta, e non poco, il funzionamento dell’economia, dei servizi e del welfare.
Dopo la Lombardia, la provincia autonoma di Bolzano è la più ricca d’Italia, con un reddito medio di 27.230 euro. E questa è anche la provincia con il tasso di occupazione più alto del Paese, al 74,4 per cento. Mentre i disoccupati sono solo il due per cento. E nonostante le nascite siano in calo anche qui come nel resto del Paese, l’Alto Adige oggi mantiene pure il primato del tasso di fecondità: 1,56 figli per donna, contro l’1,2 della media nazionale.
Per strada si vedono molti bambini e tanti giovani. C’è chi è arrivato qui a lavorare da altre parti d’Italia, ma tanti sono rientrati dopo aver trascorso molti anni fuori regione o all’estero. Il numero dei cosiddetti returnees, altoatesini che ritornano, continua ad aumentare. E il sessanta per cento di loro ha una laurea.
Solo per il sostegno ai genitori, per fare un esempio, esistono cinque diversi tipi di assegni. La Provincia destina un contributo mensile di 200 euro a tutte le famiglie con bambini fino a tre anni anni, indipendentemente dalla situazione economica. E se anche i papà usufruiscono del congedo parentale, il contributo può arrivare fino a 2.400 euro.
«Negli anni, l’autonomia è stata sempre più difficile da gestire per via di diversi interventi della Corte Costituzionale sulle competenze concorrenti tra Stato e Provincia», spiega Heiss. In campagna elettorale, Giorgia Meloni ha promesso che avrebbe ripristinato quelle che Heiss chiama «competenze compromesse», soprattutto sul commercio e la gestione dei dipendenti pubblici. E a Roma è stato istituito un tavolo con il ministro leghista Roberto Calderoli. Ma finora si è mosso poco.
In Alto Adige si contano oltre sessantunomila imprese, di cui circa dodicimila solo a Bolzano. «La città è posta in una posizione centrale nell’arco alpino lungo l’arteria del Brennero», spiega Heiss. «Come città di confine, ha sempre avuto una vocazione commerciale: qui si incontravano i commercianti dell’alta Italia e della bassa Germania». Prova ne è il Palazzo mercantile, un edificio progettato dall’architetto veronese Francesco Perotti nel Settecento.
Ma fino alla Grande guerra, la presenza italiana in Sudtirolo non superava il dieci per cento. Nel 1919 la Provincia autonoma di Bolzano e il Trentino, poi, vengono annessi all’Italia. E dal 1922, con l’arrivo di Benito Mussolini al potere, parte l’italianizzazione forzata di questi territori. E così cominciano le prime tensioni. La statua di Walther dalla piazza principale viene spostata in un parco nascosto. La lingua tedesca viene vietata e anche il suo insegnamento nelle scuole. I nomi dei comuni e delle strade, ma anche nomi e cognomi dei cittadini, vengono tradotti in italiano. Mentre la Germania, non ancora nelle mani di Hitler, finanziava le cosiddette «scuole nelle catacombe» clandestine, in cui si continuava a insegnare il tedesco. Solo la potente Chiesa cattolica locale riuscì a mantenere la predica nelle due lingue.
Gli italiani a Bolzano cominciarono ad arrivare in massa quando il regime fascista, dal 1934, decise di realizzare una zona industriale in questo territorio di confine. Le nuove aziende, soprattutto del settore metallurgico ed energetico, non erano soggette né a tasse né a dazi doganali, godendo di sovvenzioni statali ed energia elettrica quasi a costo zero. Dalle zone più povere del Nord Est si spostarono migliaia di lavoratori attirati dalla promessa di uno stipendio e di una casa. Vennero costruiti interi quartieri operai con piccole villette dotate di giardino e lussuosi appartamenti per i gerarchi. La popolazione di Bolzano balzò all’improvviso da venticinquemila a sessantamila abitanti. Tutti i nuovi arrivati erano italiani, ovviamente.
Nel 1939, dopo il Patto d’acciaio tra Italia e Germania, poi, «venne trovata una soluzione diabolica», spiega Heiss. «I sudtirolesi di lingua tedesca e ladina furono posti davanti a un’alternativa: rimanere in Italia con la cittadinanza italiana oppure scegliere la cittadinanza tedesca, abbandonando la città e spostandosi nei territori del Reich tedesco». L’ottantacinque per cento della popolazione in lingua tedesca e ladina optò per la Germania, ma solo settantacinquemila persone su duecentocinquantamila alla fine si spostano davvero. «Di fatto se ne andò solo chi non aveva un lavoro», spiega Heiss. «Gli altri preferirono restare e aspettare, anche perché ai nazisti arrivati al potere in Germania a quel punto preferivano i fascisti».
Durante la seconda guerra mondiale, Bolzano viene bombardata ben ventiquattro volte dagli alleati. I pochi palazzi sopravvissuti alla guerra si notano per i murales sulle facciate che costituivano anche le insegne dei negozi.
Finita la guerra, l’Austria chiese la riannessione del Sudtirolo. Ma era un Paese sconfitto. La Südtiroler Volkspartei, ancora oggi partito di riferimento della popolazione tedesca guidato originariamente dagli ex oppositori del nazismo, organizzò anche una raccolta firme per tornare sotto il cappello di Vienna. Ma alla fine l’Alto Adige venne confermato territorio italiano. E con l’accordo tra De Gasperi e Gruber, nel 1946 venne sancita la nascita della regione autonoma del Trentino-Alto Adige con la tutela delle minoranze linguistiche.
Il marchio del ventennio fascista a Bolzano salta all’occhio in tanti palazzi della città, soprattutto al di là del torrente Talvera. Su tutti spicca il monumento alla Vittoria dell’architetto Marcello Piacentini, con tanto di colonne bianche adornate con enormi fasci littori, ancora al centro di aspre polemiche.
Oggi, delle industrie fasciste è rimasto poco. Ma nella zona industriale si trovano grandi nomi come Iveco, Fercam e le Acciaierie Valbruna. E a Bolzano sono nati anche importanti marchi come i supermercati Despar, i wafer Loacker e i negozi Sportler.
Alberghi, ristoranti, commercio e servizi privati, però, fanno oggi la metà dell’economia della città. Nella stagione invernale 2023/2024, gli arrivi registrati sono stati 3,3 milioni e le presenze 13,9 milioni. L’Alto Adige resta il «posto al sole» dei tedeschi che si spostano poi verso il lago di Garda: lo scorso agosto gli arrivi dalla Germania sono stati il 35,7 per cento sul totale dei turisti arrivati a Bolzano.
C’è chi passa solo qualche ora sotto i portici della città per spostarsi poi sulle piste da sci delle Dolomiti. Ma sempre più turisti si fermano per visitare questo angolo d’Italia dalla doppia anima. Il Museion, museo d’arte moderna e contemporanea traslocato dal 2008 in un imponente edificio vetrato che unisce la parte tedesca e quella italiana, conta quarantamila visitatori all’anno, la maggior parte di lingua tedesca. C’è anche un tour della Bolzano nascosta, quella sotterranea, dove oggi sono state create meravigliose cantine con i migliori vini della zona e non solo. Quasi ogni ristorante ne ha una. Ma da quando lo chef Claudio Melis si è trasferito a Merano, la città ha perso il suo unico ristorante stellato.
Di tanto in tanto, interi quartieri della città sono costretti a evacuare. Quando si scava, si trovano spesso ordigni della seconda guerra mondiale, scattano i piani d’emergenza segnalati dalle sirene e tutto si ferma. E anche i turisti sono costretti a rifare le valigie.
Nel comune si contano quarantadue alberghi. E il primo e unico cinque stelle, Castel Hörtenberg, un castello rinascimentale trasformato in una delle chicche del lusso del capoluogo altoatesino, è stato inaugurato nel novembre 2019 dal gruppo Podini, una holding che a Bolzano gestisce altri due hotel e ha interessi dall’immobiliare all’importazione dello zucchero.
Ma a vincere, anche a Bolzano, sono gli alloggi privati per gli affitti brevi. Secondo la banca dati del turismo, se ne contano duecentotto. E anche qui, nonostante con i suoi centomila abitanti Bolzano non sia una grande città, è sempre più sentito il problema del caro affitti. L’offerta di case è troppo bassa per sostenere la domanda crescente. I prezzi salgono. E anche se Bolzano è seconda dopo Milano nella classifica nazionale degli stipendi (retribuzione media annuale di 34.804 euro secondo l’Osservatorio Job Pricing), proprio come a Milano ci si sposta sempre più fuori città per trovare una casa in affitto o in vendita a prezzi abbordabili. E non sono pochi quelli che sconfinano nei centri commerciali in Austria anche per fare la spesa al supermercato per la famiglia, approfittando dei prezzi più bassi.
«Noi bolzanini ritorniamo perché qui c’è lavoro e gli stipendi sono più alti che nel resto d’Italia. Ma il costo della vita si è alzato molto e gli affitti sono alle stelle», dice Sergio, trentaduenne rientrato dopo un’esperienza di lavoro in Germania.
Il mercato immobiliare, in effetti, è paragonabile a quello milanese. Per un bilocale in centro si spendono poco più di mille euro, per un trilocale si viaggia intorno ai 1.300. E il sindacato autonomo della Polizia ha denunciato di recente come sempre più agenti siano costretti a lasciare la città perché con gli stipendi pubblici non possono permettersi una casa in zona. Per gli studenti universitari, la situazione è critica e la competizione per un posto letto è diventata una lotteria.
Il ricambio di chi va e chi viene è continuo. Negli ultimi dieci anni, circa 1.200 medici si sono trasferiti dall’Alto Adige, principalmente verso Paesi di lingua tedesca. Mentre nello stesso periodo circa mille camici bianchi sono arrivati dall’Italia meridionale. Il bilancio finora è stato positivo anche per gli insegnanti e gli artigiani, che si sono spostati verso l’Alto Adige in misura molto maggiore rispetto a chi ha lasciato il territorio. Soprattutto nella fascia tra i venti e i quarant’anni. Ma crescono sempre più i numeri di chi parte per lavoro, attirati dagli stipendi più alti e facilitati dalla conoscenza dell’inglese e del tedesco, soprattutto verso Austria, Germania e Svizzera.
Dall’altra parte del ponte Talvera, le case si trovano a prezzi più abbordabili rispetto al centro storico. Il passaggio di chi fa su e giù in bici per studiare e lavorare è continuo. E molti sono stranieri. In Alto Adige, secondo l’ultimo dossier statistico, gli immigrati sono cinquacinquemila, poco più del dieci per cento della popolazione, sopra la media nazionale. Ma l’Alto Adige fa un’eccezione rispetto al resto d’Italia: tra i Paesi di maggiore provenienza degli immigrati c’è anche la Germania, grazie alla posizione geografica e, ovviamente, alla lingua.
Gli altri immigrati arrivano soprattutto da Romania, Albania e Pakistan. Molti lavorano tra i banchi del mercato cittadino. La maggior parte sono camerieri e operai. E anche l’immigrazione stagionale agricola è alta, soprattutto nella Val di Non per la raccolta delle mele.
Ma anche qui, come nel resto d’Europa, tira il vento anti-immigrazione, se non addirittura xenofobo. Il partito di estrema destra Südtiroler Freiheit, Libertà per il Sud Tirolo, fondato da Eva Klotz, che professa la secessione e il ritorno all’Austria, si è fatto conoscere per i cartelli con lo slogan «espellere stranieri criminali», con la foto di una mano che impugna un coltello. In passato, lo stesso partito era finito in tribunale per un manifesto di una scopa che cancellava il verde del tricolore italiano, lasciando il bianco e rosso della bandiera tirolese, e un altro che mostrava un cadavere coperto da un lenzuolo accanto alla scritta «Il medico non sapeva il tedesco».
La Südtiroler Freiheit si presentò per la prima volta alle elezioni provinciali nel 2008, raccogliendo poco meno del 5 per cento dei voti. Alla tornata elettorale 2023, ha sfiorato l’11 per cento, piazzandosi al terzo posto. Il segretario Sven Knoll, che come gli altri esponenti si vede spesso vestito negli abiti tipici sudtirolesi, ha incassato oltre venticinquemila preferenze (terzo candidato più votato in assoluto) e insieme a lui sono entrati in consiglio altri tre membri del partito, che vanta anche connessioni con l’estrema destra austriaca.
Tra le ultime cose, la Süd-Tiroler Freiheit ha presentato in consiglio provinciale una mozione per chiedere l’amnistia per gli ex terroristi sudtirolesi. E un’altra per dire di no ai nuovi migranti in Alto Adige, chiedendo una diversa ripartizione dei contributi assegnati a stranieri e popolazione locale per il sostegno all’affitto. La federazione giovanile delle associazioni di lingua tedesca la scorsa estate ha deciso persino di espellere il movimento giovanile della Süd-Tiroler Freiheit per le sue posizioni estreme contro i migranti.
Un disco rotto che si ripete come in molte altre parti d’Europa. Anche perché pure in Alto Adige, nonostante il primato italiano per natalità, comincia a farsi sentire la scarsità di manodopera. I nuovi nati nell’ultimo anno in Alto Adige sono stati meno di cinquemila e la stessa città di Bolzano ha perso oltre centonovanta abitanti.
Nell’ultima assemblea generale della Confindustria Alto Adige, il presidente Heiner Oberrauch ha ricordato che nei prossimi dieci anni trentamila persone che andranno in pensione non verranno sostituite da altrettanti giovani. «È fondamentale trovare soluzioni adeguate all’immigrazione; in caso contrario, rischiamo di non poter più garantire servizi essenziali», ha detto. «Per le persone che vogliono venire qui da noi, ma anche per i nostri giovani, abbiamo bisogno soprattutto di una cosa: alloggi a prezzi sostenibili, sia in proprietà sia in affitto». In fondo, anche Bolzano, non è poi così distante dall’Italia.