Ormai l’hanno detto un po’ tutti che la vittoria di Donald Trump alle elezioni presidenziali negli Stati Uniti è stata la rivincita del giovane maschio etero, bianco, cis, americano. L’elettore che per maturare una opinione politica non guarda la tv ma ascolta il podcast di Joe Rogan, che compra i libri di Jordan Peterson per sentirsi una persona migliore e gode nel vedere su Youtube conservatori millennial come Ben Shapiro e Charlie Kirk smontare le tesi degli studenti woke nei college americani. La vera domanda è capire come il settantottenne newyorchese, che il 20 gennaio giurerà per la seconda volta come presidente degli Stati Uniti, abbia capito come coccolare quella fetta demografica senza sembrare fuori contesto, adattando la sua retorica da quinta elementare a ogni microcosmo online in cui è andato in pellegrinaggio prima del voto.
Una risposta prova a darla il Wall Street Journal spiegando il ruolo cruciale dell’ultimogenito della dinastia Trump: Barron. Non parliamo dell’inquietante quarantaseienne copia carbone che fa da scaldapalco ai comizi del padre, ma del diciottenne figlio di Melania, preso in giro durante il primo mandato di Trump per il suo atteggiamento distaccato negli incontri pubblici. La sua goffa timidezza, tipica (si fa per dire) di un decenne messo all’improvviso al centro del mondo senza il suo consenso, fu scambiata malevolmente da molti media americani come chiaro segno di autismo.
Ovviamente non era vero; e ora che Barron ha diciotto anni, da semplice matricola della New York University si è preso la sua rivincita mediatica consigliando al padre di fare una visita nella manosfera (non nel senso di mano, ma di man, uomo) comportandosi un po’ come fece José Sebastiani che suggerì al padre Amadeus di invitare sul palco dell’Ariston Lazza e Geolier per svecchiare Sanremo. Che a pensarci è il vero motivo per cui molti editorialisti fanno figli: rimanere connessi in modo brutale col presente ricevendo ogni mattina almeno tre spunti per scrivere l’articolessa di turno in cui ci spiegheranno che i problemi del loro singolo adolescente sono i problemi di tutti gli adolescenti del Paese.
Il grande errore sarebbe quello di sovrapporre la manosfera con i vecchi conservatori alla John Wayne del Dio, patria, armi e famiglia americana. Gli streamer su Twitch o i podcaster della società del trauma permanente sono più interessati a risolvere la crisi della mascolinità, rifugiandosi nel terreno sacro dell’adolescenza maschile: il cameratismo innocente fatto di meme, cazzeggio, esaltazione del corpo, ragionamenti tra “bro” (diminutivo di brother, equivalente al “fra” degli anni duemila) sulla differenza fondamentale tra maschi alfa, beta e sigma. No, non sono la stessa cosa, ma vi basti sapere che al momento la versione preferita dalla manosfera è il sigma perché è indipendente, introspettivo e sicuro di sé, ma non cerca né il potere né il controllo sugli altri come farebbe un maschio alfa qualunque. Se vi serve un riferimento pop, pensate al Christian Bale di American Psycho, senza tutta la parte sugli omicidi e la cocaina.
Come spiega il Wall Street Journal, la mediazione di Barron Trump è risultata decisiva per andare ad agosto come ospite dal twitcher Adin Ross. «Mio figlio Barron ti saluta, è un tuo grande fan», ha chiarito subito Trump, ricevendo in cambio da Ross un Rolex e un cybertruck della Tesla con impressa l’immagine di Trump dopo il primo attentato; tanto per farci capire quanto guadagna oggi un ventiquattrenne che si fa guardare online mentre gioca ai videogiochi.
Il quotidiano statunitense però sbaglia nel fissare quella come prima tappa del pellegrinaggio di Donald Trump nella manosfera. Il percorso è iniziato a giugno, ai microfoni di Logan Paul, il vero simbolo di questo microcosmo. Nel 2013 Logan pubblicava scenette comiche su Vine, nel 2015 vlog su Youtube per raccontare le sue imprese goliardiche. Poi quando ha scoperto di essere mortale si è buttato nel mondo del wrestling e della lotta libera, cercando senza successo di sfidare un vero pugile, Conor McGregor. L’impresa è riuscita al fratello Jake Paul che le prenderà sul serio da Mike Tyson su Netflix il 15 novembre.
Non a caso per lanciare la clip della lunga intervista sul canale “ImPaulsive” di Logan Paul, Trump si è prestato a una scenetta tipica dei pugili che si imbruttiscono con lo sguardo prima del match. Quello è stato il vero spartiacque che ha permesso al candidato repubblicano di spostare la sua ennesima finestra di Overton, rendendo socialmente accettabile la presenza di un politico in un podcast riservato ai giochi camerateschi.
La strategia comunicativa di Trump è stata banale col senno di poi e geniale a pensarci prima: giocare al gioco preferito del podcaster di turno. Così con Logan Paul ha parlato delle potenziali risse in gioventù e del rapporto tra fratelli; con l’amante dei complotti Joe Rogan ha rivelato le informazioni sugli Ufo che ha scoperto durante la sua presidenza; con il comico dissacrante Andrew Schulz, Trump ha criticato i limiti del politicamente corretto. Mentre con il già citato Adin Ross ha parlato delle aspirazioni dei giovani, enfatizzando il concetto del sogno americano e con l’ex tossicodipendente autodichiarato Theo Von, Trump ha condiviso pubblicamente la sua astemia, a causa dell’esperienza del fratello Fred con l’alcolismo.
A ogni nicchia la sua ossessione: una esperienza inusuale per Trump ma preferibile alle interviste giornalistiche in cui gli si chiede conto del colpo di Stato del 6 gennaio 2021, dei processi e delle dichiarazioni controverse della sua carriera politica. Dallo spot di Pizza Hut a “Mamma ho riperso l’aereo: mi sono smarrito a New York”, Trump ha dimostrato di saper cazzeggiare per ottenere ciò che vuole. I media si sono accorti di questo fenomeno alla fine, quando Trump si è fatto intervistare da Joe Rogan, conduttore del più importante e ascoltato podcast americano. Rogan non si può definire propriamente un attore della manosfera, ma è comunque ascoltato dagli under 35 che appartengono a questa categoria elettorale ed esistenziale.
Il merito di aver fatto scoprire al padre una tappa va sicuramente al giovane Barron, ma già da qualche mese gli spin doctor di Trump avevano intuito la strada da seguire: raggiungere gli elettori maschi, tendenzialmente repubblicani, con bassa propensione al voto, come spiega uno dei guru della manosfera Charlie Kirk in questo video. Un approccio innovativo che ha suscitato nei colleghi del Partito Democratico uno stupore simile a quello provato dai repubblicani nel 2008, quando videro gli obamiani conquistare i social network nella strada per la Casa Bianca. Kamala Harris ha rinunciato a mettere il suo picchetto, pagandone le conseguenze. Un errore che non farà il candidato democratico nel 2028, se esisteranno ancora la manosfera, i podcast, l’America.