Dei duecentocinquantuno israeliani rapiti da Hamas, quattro sono stati liberati, centocinque scambiati durante una tregua lo scorso novembre, e otto sono stati salvati dalle truppe dell’Idf, l’esercito israeliano. I corpi di trentasette ostaggi sono stati recuperati, ma ne rimangono ancora novantasette nelle mani dei rapitori. Di questi, l’Idf ha confermato la morte di almeno trentaquattro persone. Inoltre, Hamas tiene prigionieri a Gaza due civili israeliani entrati nella Striscia nel 2014 e nel 2015, e i corpi di due soldati dell’Idf uccisi nel 2014.
È in questo quadro che vengono portati avanti i difficili negoziati per un cessate il fuoco e un accordo per il rilascio degli ostaggi. Israele ha sottoposto ai mediatori del Qatar una proposta che prevede una tregua di trenta giorni e il rilascio di undici ostaggi israeliani – donne e bambini –, in cambio di cento prigionieri palestinesi. Ma dopo la morte di Yahya Sinwar, Hamas è guidato da Khalil al Hayya, Zaher Zabarin, Khaled Meshal, Mohammed Darwish e un quinto leader, il cui nome è tenuto segreto per motivi di sicurezza. Così anche il Qatar si trova in difficoltà nel trovare un interlocutore responsabile all’interno della Striscia per le trattative.
«La morte di Sinwar è senza dubbio una benedizione», dice a Linkiesta Liran Berman, fratello degli ostaggi Ziv e Gali Berman. «Ma allo stesso tempo aggiunge nuove complicazioni. Non conosciamo realmente le intenzioni dei cinque nuovi leader di Hamas, e forse nemmeno loro sanno dove si trovino gli ostaggi».
A rispondere alle proposte israeliane sono stati Taher al-Nunu e Sami Abu Zuhri, due alti funzionari di Hamas, che hanno chiarito come una tregua temporanea non sia sufficiente a siglare un accordo. I mediatori sperano che un’intesa di breve termine possa rappresentare un primo passo verso una tregua duratura. Ma Hamas ribadisce una posizione inamovibile, mantenendo le richieste dello scorso anno: fine permanente del blocco su Gaza, ritiro delle truppe israeliane, consistenti aiuti umanitari per la ricostruzione, e uno scambio significativo con i prigionieri palestinesi.
Le manifestazioni nelle strade israeliane continuano con forza, con la popolazione che protesta contro il governo e chiede azioni decisive. Anche Liran Berman prende parte a queste proteste, spingendo per un accordo che permetta il rilascio dei suoi fratelli: non crede che il primo ministro stia rallentando i negoziati, ma dice che «Netanyahu non sta facendo abbastanza». La sua priorità è chiarissima: «Personalmente, accetterei qualsiasi condizione pur di riaverli: il rilascio dei prigionieri palestinesi, il ritiro delle nostre truppe da Gaza, qualsiasi cosa. Sono certo che, una volta liberati gli ostaggi, saremo in grado di gestire qualsiasi situazione, anche, se fosse necessario, un nuovo intervento per smantellare Hamas».
Berman ricorda come l’ultimo cessate il fuoco, mediato dall’Egitto il 21 maggio 2021 con il sostegno degli Stati Uniti e delle Nazioni unite, sia stato rispettato fino alla rottura da parte di Hamas. «Il 6 ottobre il cessate il fuoco c’era. Ma alle 6:29 del mattino del 7 ottobre, Hamas ha dato inizio a questa guerra. Quando gli ostaggi torneranno, anche la guerra finirà, perché noi vogliamo solo vivere in pace con i nostri vicini».
La storia della sua famiglia è una dolorosa testimonianza. Il fratello Idan e i suoi genitori, Talia e Doron (quest’ultimo accompagnato dalla sua badante), sono stati evacuati da Kfar Aza dopo una giornata trascorsa nascosti nei rifugi antimissile. I gemelli Gali e Ziv, invece, dormivano nei loro letti nel quartiere più vicino al confine, quando i terroristi sono arrivati per rapirli. Liran avrebbe dovuto trovarsi lì, ma era rimasto a casa con i figli e la moglie, che aveva contratto il Covid-19. Dopo undici giorni di angoscia, due ufficiali si sono presentati alla famiglia per informarli che Gali e Ziv erano stati identificati tra gli ostaggi portati a Gaza.
Il padre Doron, malato di Parkinson e con la demenza senile, non comprende la situazione. La sua badante, nonostante le pressioni della famiglia di lei di tornare in Romania, ha stoicamente promesso di rimanere accanto a lui fino al ritorno dei gemelli. La madre Talia affronta lo shock e il dolore evitando i media e le delegazioni, cercando di mantenere la propria salute in attesa del ritorno dei figli.
Oggi, Liran si dedica interamente a dar voce agli ostaggi, raccontando la sua storia a chiunque sia disposto ad ascoltarla e prendendo parte a delegazioni internazionali per mantenere alta l’attenzione sulla questione. Tuttavia, osserva con tristezza che «il mondo sta perdendo interesse: i media ci cercano solo per l’anniversario, poi cala il silenzio».
Negli ultimi mesi, ha incontrato figure di spicco, tra cui l’ambasciatore del Qatar, un ex direttore della Cia, il ministro degli Esteri dell’Unione europea Josep Borrell e il segretario generale dell’Onu António Guterres. A Washington, ha dialogato sia con democratici come Hakeem Jeffries, sia con repubblicani come Mike Johnson. È stato due volte a New York, poi a Bruxelles, Strasburgo, Parigi, Londra e Madrid. Recentemente, è arrivato a Milano per parlare ai giovani della comunità ebraica.
«Prima del 7 ottobre eravamo una famiglia anonima e felice», racconta Berman. «Gali e Ziv lavoravano come tecnici delle luci nel settore musicale. Ovunque vadano, portano luce: è ciò che fanno e ciò che sono». L’ultima notizia ricevuta su di loro risale allo scorso novembre, quando alcuni ostaggi liberati hanno raccontato di averli visti, sebbene separati. Da allora non hanno saputo più nulla, ma la famiglia, non avendo ricevuto conferme di un decesso, è convinta che siano ancora vivi. In attesa del loro ritorno, hanno già preparato due appartamenti per accoglierli, e sognano un giorno di poter andare tutti insieme a vedere una partita di calcio a Liverpool.
A ricordare un fratello in ostaggio c’è anche Michael Levy, che racconta la storia di Or e della moglie, Einav Elkayam Levy: «Guardate il suo volto, il volto di un essere umano, con una vita, dei sogni, speranze e una famiglia. Ogni giorno in cui è trattenuto in cattività è un crimine contro l’umanità commesso da Hamas». Dal massacro del 7 ottobre, la famiglia ha vissuto «interminabili ore di dolore, seguite da lacrime infinite».
Per quel giorno, Or ed Einav avevano deciso di concedersi una pausa dalla quotidianità. Lasciato il figlio di due anni a casa dei nonni, si sono diretti al Nova Festival: «Si tratta di due civili innocenti che desideravano solo celebrare la pace e l’amore, immersi nella musica». Tuttavia, la loro giornata di svago si è trasformata rapidamente in una tragedia.
La coppia è arrivata al festival appena nove minuti prima che iniziasse l’attacco. Hanno fatto subito inversione per tornare a casa mentre i razzi attraversavano il cielo. Con gli allarmi che risuonavano senza sosta, si sono fermati e hanno cercato rifugio in un bunker, seguendo le istruzioni di sicurezza. Or, riuscito a chiamare sua madre dal bunker, le ha detto tra le ultime parole: «Mamma, non vuoi sapere cosa sta succedendo qui…».
Dieci minuti dopo, i terroristi hanno raggiunto il rifugio, hanno gettato granate e sparato proiettili. Einav è stata uccisa insieme ad altre diciassette persone. La famiglia ha poi scoperto tramite un video girato e diffuso dai terroristi di Hamas che Or era stato rapito, ferito e caricato su un pickup, il volto segnato dal dolore e coperto del sangue di sua moglie. «Non l’avevo mai visto così distrutto», racconta Michael.
Da allora, Michael ha dedicato ogni sua energia a riportare Or a casa. «Or significa luce, e ho promesso ai nostri genitori che avrei riportato quella luce da noi, anche se dovessi ribaltare il mondo intero». Questo impegno lo ha portato a partecipare a diverse delegazioni internazionali, incontrando figure come il papa, il presidente, il primo ministro e diversi diplomatici, raccontando la storia del fratello a chiunque fosse disposto ad ascoltarlo. «Stiamo cercando di esercitare pressione su chi detiene il potere, per ottenere il rilascio degli ostaggi. Il mondo dovrebbe obbligare il Qatar, l’Egitto, l’Iran, la Turchia e tutti i finanziatori di Hamas a fare pressione per la loro liberazione», insiste Michael.
Mentre la lotta per la libertà di Or continua, suo figlio Almog ha festeggiato il terzo compleanno senza i genitori. «Il bambino chiede di loro, vuole tornare a casa con loro, e non riesce a capire perché non possa vederli né cosa significhi quando gli diciamo che “mamma non tornerà”. Almeno suo padre dobbiamo riportarlo a casa. Questa non è una questione politica: è una questione di umanità».
Infine, Michael Levy condivide un messaggio di pace: «Credo di parlare a nome di molti israeliani quando dico che tutti noi desideriamo vivere in pace. Penso che lo stesso valga per coloro che, a Gaza, non sostengono Hamas. La pace deve essere la soluzione. Ma è impossibile vivere in pace finché gli ostaggi non saranno tornati e finché Hamas continuerà le sue attività criminali».