C’è della bravura, bisogna riconoscerlo, nell’agire del governo e più in generale di tutto il vasto mondo che ruota intorno alla maggioranza che governa questo Paese. In tempi di narrazioni, marketing e dominio della percezione sulla realtà, riescono a seppellire, camuffare, occultare la ripresa del tradizionale declino italiano e a deviare la frustrazione di coloro a cui il declino non può essere nascosto perché lo soffrono in prima persona.
Ma ancora per quanto? I dati sulla crescita presente e futura della Commissione Europea sono di nuovo impietosi, quasi come prima del rimbalzo post Covid e della costosa sbornia del Superbonus. A differenza che nel 2021, 2022 e 2023 quest’anno l’economia italiana si espanderà meno di quella europea, dello 0,7 contro lo 0,9 per cento, nel 2025 il gap si allargherà, il nostro Pil aumenterà dell’uno per cento, a fronte del +1,5 per cento dell’Ue, mentre nel 2026 dell’1,2 per cento, contro il +1,8 per cento dell’Unione.
Visto che siamo in tempi di calo demografico si usa guardare anche al dato pro capite, perché, quando la torta si ingrandisce poco, se le fette diminuiscono c’è qualcosa in più per chi rimane. Tuttavia anche in questo caso, se non quest’anno, dal prossimo la nostra crescita sarà inferiore a quella europea.
Parliamo di previsioni, appunto, che spesso si rivelano troppo ottimistiche. Nel caso dell’Italia è stato un classico per molto tempo, prima del Covid, quando i Documento di economia e finanza dei governi, ma anche le stime della Commissione Ue, disegnavano scenari più rosei di quelli che poi si verificavano. Siamo tornati a quel punto. L’ultima previsione di Bruxelles vede per il 2024 una crescita del prodotto interno lordo di due decimali più bassa di quella prevista nell’autunno 2023 e nella primavera di quest’anno. Una revisione al ribasso analoga c’è anche per il 2025.
Pure per quanto riguarda l’area Euro in generale e la Germania ci sono state modifiche in peggio delle stime europee, sono avvenute soprattutto tra il novembre 2023 e il maggio scorso, e, soprattutto nel caso tedesco, sono state persino più negative di quelle italiane. Ma mal comune non produce mezzo gaudio, dovremmo ormai saperlo, a maggior ragione se, invece, l’economia più simile a quella italiana, la spagnola, vede tassi di crescita molto superiori ai nostri e per giunta previsioni riviste al rialzo. A distanza di un anno quelle per il 2024 sono passate dal +1,7 al più tre per cento.
La differenza tra Italia e Spagna sta diventando imbarazzante. Se un anno fa si pensava che nel 2024 e nel 2025 gli iberici sarebbero cresciuti dello 0,8 per cento più di noi, oggi il gap è diventato del 2,3 e dell’1,3 per cento, peggiorando ulteriormente anche rispetto a questa primavera. E divari molto ampi sono evidenti anche se si guarda al Pil pro capite, che quest’anno, secondo le stime dell’autunno 2023, sarebbe dovuto aumentare allo stesso modo nei due Paesi, mentre ora è visto salire dell’1,1 per cento in più in Spagna.
A cosa sono dovuti questi dati e il progressivo calo delle stime sul Prodotto interno lordo italiano? Principalmente al continuo ribasso delle previsioni sulla crescita dei consumi privati, che sono il principale motore del prodotto interno lordo. Secondo la Commissione Europa quest’anno sarà zero, mentre a maggio si pensava che sarebbe stata dello 0,2 per cento e un anno fa dell’uno per cento. In nessun altro grande Paese europeo c’è stata una revisione così drastica, di un punto percentuale, non in Francia, dove si è passati dal +1,4 al +0,8 per cento, non in Germania, dove anzi ci sarà una piccola ripresa della domanda privata rispetto al 2023, dovrebbe salire dello 0,5 per cento, poco meno del +0,6 per cento immaginato nell’autunno 2023. Certamente non in Spagna, in cui aumenterà di ben il 2,5 per cento, mezzo punto in più di quanto si pensava sarebbe salita un anno fa.
Il divario tra Italia e Ue qui è ancora più marcato. La crescita dei consumi italiani sarà dell’1,2 per cento inferiore di quella media dell’Unione, a dispetto delle previsioni di fine 2023, che stimavano il divario essere dello 0,3 per cento. Ancora maggiore sarà la differenza tra noi e il resto d’Europa per quanto riguarda la domanda pubblica. Qui l’abilità della maggioranza è massima, perché sta riuscendo a nascondere, di fatto, una austerità cui è costretta dai fatti e che va contro ogni sua impostazione politica e ideologica. L’Italia sarà quest’anno l’unico Paese dell’Eurozona a vedere un calo, dello 0,3, per cento della domanda statale, mentre nella Ue questa salirà del 2,1 per cento. Il gap, quindi, sarà del 2,4 per cento, contro lo 0,8 per cento stimato nell’autunno 2023.
La crescita zero dei consumi avviene nonostante i salari reali siano visti in salita del 2,8 per cento, più della media Ue e più che in Spagna. Ma forse è troppo tardi, dopo due anni in cui gli stipendi non sono riusciti a stare al passo dell’inflazione e in cui, al netto di questa, sono scesi del 2,9 e dell’1,9 per cento, molto più di quanto siano diminuiti nel resto dell’Unione Europea. L’aumento dell’occupazione, ovvero di quanti possono spendere, aveva compensato, assieme all’incremento degli altri redditi, da sussidi o da impresa, ma oggi quella perdita di potere d’acquisto si fa sentire, assieme alla stretta ai cordoni della borsa del Governo e alla fine della droga dei sussidi e dei bonus.
E in futuro? Cosa accadrà? Come in altre occasioni le previsioni per i prossimi anni sono modeste ma positive, i salari reali dovrebbero aumentare dell’1,2 e dello 0,9 per cento nel 2025 e nel 2026. È un film già visto, sarebbe bello illudersi sia così, ma quello che è accaduto con le stime per il 2024 dovrebbe insegnarci a essere scettici. Soprattutto perché tra gli indicatori che sono peggiorati maggiormente c’è quello che forse è il più importante di tutti per la crescita di un Paese e soprattutto per quella degli stipendi: la produttività del lavoro.
Nell’autunno 2023 la Commissione europea riteneva che quest’anno sarebbe stata positiva, salendo dello 0,6 per cento, in primavera la stima era di un +0,2 per cento, mentre oggi è vista addirittura in calo dello 0,9 per cento. Una differenza dell’1,5 per cento dovuta al fatto che, a causa della scarsa competitività del nostro sistema Paese, a una doverosa e tardiva risalita dei salari, oltre che dell’occupazione, non corrisponde una creazione di valore proporzionale.
Il governo italiano e la maggioranza di centrodestra di fronte a questi rovesci godono ugualmente, per ora, di sondaggi favorevoli, mentre altrove gli esecutivi sprofondano nell’impopolarità, si pensi alla Germania di Olaf Scholz, alla Francia di Emmanuel Macron, ma persino alla Spagna di Pedro Sanchez, dove il premier socialista, nonostante tutto, vede un gradimento inferiore a quello di Giorgia Meloni.
I motivi sono molti, dalla bravura nell’imporre nell’agenda mediatica tematiche diverse dall’economia, come l’immigrazione o qualche battaglia culturale, all’abilità nel creare una narrazione vittimista, in cui il centrodestra, appunto, si batterebbe contro un’egemonia progressista ancora prevalente, nonostante i più di due anni di potere meloniano. In fondo siamo davanti al replay di quanto visto a lungo con i governi Berlusconi. Da non dimenticare è anche l’incapacità dell’opposizione di utilizzare, oltre che di comprendere, la fase che viviamo.
Se fosse solo una questione politica il danno della negazione del declino colpirebbe solo i partiti che si oppongono all’attuale maggioranza. Il problema è, appunto, che non è un tema prettamente politico. Il nascondimento del peggioramento della situazione economica, la mancanza di una consapevolezza e soprattutto di una pressione verso chi è al comando da parte dell’opinione pubblica è invece un danno molto più grande, perché spinge la maggioranza a fare quello che è più comodo e conveniente per essa, ovvero il meno possibile. La induce all’inattività, fatto salvo per qualche intervento congiunturale obbligato da Bruxelles, a ignorare ogni esigenza di riforma, strutturale o meno, buttando la palla un po’ più in là, fino al prossimo cigno nero che ci coglierà impreparati. Un copione cui abbiamo già assistito che sarebbe bello non rivedere più.