Da anni, nel dibattito politico italiano, è presente una retorica meridionalista che, in ultima analisi, tende a deresponsabilizzare le classi dirigenti regionali e locali rispetto ai profondi divari creatisi tra le diverse aree del Paese e all’effettivo utilizzo delle risorse. Questa narrazione spesso tende a mascherare i consistenti trasferimenti di risorse tra le aree del Paese, che hanno caratterizzato la politica centralista promossa dai vari schieramenti politici e che ha risposto, peraltro, correttamente, al nostro dettato costituzionale
A mo’ di esempio, nella media del triennio 2014-2016, il Mezzogiorno ha beneficiato di flussi redistributivi pari al 4,1 per cento del Pil nazionale su base annua (il diciotto per cento del Pil del Mezzogiorno). Nel 2017, la Lombardia ha destinato un surplus pari al sedici per cento del proprio Pil, e così via. Purtroppo, però, – e questo è il nodo politico – questi trasferimenti non hanno favorito nelle regioni meridionali — pur con alcune differenze interne — percorsi virtuosi di crescita in grado di ridurre i divari, inclusi quelli nella qualità dei servizi, rispetto alle regioni più efficienti.
La gestione e l’amministrazione della sanità pubblica e privata convenzionata è, come sappiamo, assegnata alle Regioni, mentre i fondi vengono distribuiti secondo criteri equi dallo Stato centrale. Da qui la polemica sulle spese per la sanità che sono in calo rispetto al Pil dal 2021, dove si è toccato il valore massimo pari al sette per cento.
Dal Programma nazionale esiti dell’Agenas (ministero della Salute), la cui edizione 2024 è stata recentemente pubblicata, emerge una ennesima conferma dell’enorme differenza nella gestione delle risorse tra le diverse regioni, che ribadisce una verità troppo spesso taciuta: nelle regioni del Mezzogiorno si muore, ci si ammala o si soffre come non avviene nelle altre aree del Paese per l’inefficienza del servizio sanitario, più che per la scarsità di finanziamenti. Serve dunque un approccio che focalizzi il dibattito in primis sulla corretta gestione delle risorse disponibili.
Il rapporto di Agenas aiuta politici e cittadini ad affrontare il tema in maniera più consapevole. Tale strumento di valutazione consente di monitorare i trattamenti di provata efficacia e di produrre evidenze sulle interazioni esistenti tra sistemi organizzativi, modalità di erogazione e performance assistenziali, anche al fine di far emergere eventuali criticità soprattutto in ambito comparativo tra regioni diverse. L’edizione 2024 fa riferimento all’attività assistenziale effettuata nell’anno 2023 da milletrecentosessantatré ospedali pubblici e privati, e a quella relativa al periodo 2015-2023 per la ricostruzione dei trend temporali.
Focalizziamo l’attenzione su alcuni esiti relativi al trattamento di patologie o condizioni di salute di grande impatto sociale. Analizziamo per prima l’area cardiovascolare, i cui indicatori si stanno progressivamente riallineando al periodo prepandemico dopo la stasi forzata indotta dall’avvento della Sars-cov 2. La tempestività delle cure è il fattore più importante ai fini della sopravvivenza di una persona colpita da infarto miocardico acuto (Ima). La mortalità a trenta giorni dopo Ima è considerata un valido indicatore dell’appropriatezza ed efficacia del percorso diagnostico-terapeutico che inizia con il ricovero ospedaliero.
Per quanto riguarda la mortalità a trenta giorni dall’ammissione in ospedale, si è registrata nel 2023 una forte variabilità regionale, tanto che la regione più virtuosa – ovvero la Toscana – ha una mortalità (4,81 per cento) pari alla metà di quella della regione con la peggiore performance, ovvero la Sicilia, dove la percentuale raggiunge il 9,48 per cento. Un cittadino toscano che ha avuto un infarto cardiaco, quindi, ha il doppio delle probabilità di sopravvivenza rispetto al più sfortunato cittadino della Sicilia. Più in generale, buona parte del sud si colloca al di sopra della media di mortalità, mentre il maggior numero delle regioni del centro-nord si colloca al di sotto della suddetta media.
L’ictus cerebrale rappresenta la seconda causa di morte a livello mondiale e la terza nei paesi a sviluppo economico avanzato, dopo le malattie cardiovascolari e i tumori. Il trattamento richiede il ricorso a cure d’emergenza e il ricovero in unità di degenza dedicate, le «Stroke unit». Anche in tal caso la tempestività di cure rappresenta un importante fattore ai fini della sopravvivenza, che dipende dall’efficienza della rete di emergenza-urgenza e dalla distribuzione territoriale delle Stroke unit.
Le differenze territoriali per la mortalità a trenta giorni per ictus ischemico sono ancora più drammatiche. Infatti, a fronte di un dato italiano pari al 9,4 per cento, la mortalità nelle regioni varia da un minimo del 5,54 per cento nelle Marche a un massimo del 16,7 per cento in Basilicata: un cittadino lucano ha una probabilità di morire a trenta giorni dall’ictus ischemico pari al triplo rispetto a un marchigiano. Se guardiamo alla globalità delle regioni troviamo che (quasi) tutte le regioni del centro-nord hanno una mortalità inferiore al dieci per cento e (quasi) tutte le regioni del Sud hanno una mortalità superiore.
La mortalità a trenta giorni per frattura del collo del femore costituisce un indicatore di sistema che definisce la qualità delle cure nelle dimensioni di appropriatezza, competenza delle figure professionali e tempestività del trattamento. Rappresenta un tracciante dell’organizzazione dell’ospedale. La frattura del collo del femore rappresenta un evento spesso infausto soprattutto per un anziano: la mortalità a trenta giorni in Italia è pari al cinque per cento e riguarda soprattutto le persone avanti negli anni. Tuttavia se, oltre a essere anziano, il paziente risiede in meridione, allora la situazione precipita ulteriormente: infatti un anziano della Basilicata ha una probabilità di morire del 7,85 per cento, ovvero il triplo rispetto a quella di un trentino, dove la media è del 2,69 per cento. La maggior parte delle regioni meridionali hanno tassi di mortalità a trenta giorni per frattura di femore che sono vicini ai valori della Basilicata e distanti dai dati virtuosi della provincia autonoma di Trento.
I parti cesarei dovrebbero essere eseguiti solamente in caso di una reale necessità clinica e prendendo in considerazione la storia clinica del paziente. La scelta di eseguirli solo per evitare il dolore espone a rischi inutili. Infatti, le donne che optano per un parto cesareo in assenza di reali indicazioni cliniche hanno un maggiore rischio di andare incontro a complicanze gravi rispetto a quelle che scelgono un parto naturale. Anche il settore materno infantile non è immune da queste differenze di «latitudine»: una donna che intende partorire in Piemonte ha una possibilità di andare incontro ad un taglio cesareo pari al 13,5 per cento: tale probabilità raddoppia nella maggior parte delle regioni del sud.
Infine una considerazione su un intervento chirurgico di comune riscontro: la rimozione dell’appendice, la cosiddetta appendicectomia. Un intervento di routine, eseguito ormai nella maggior parte dei casi in modalità laparoscopica, e quindi senza il taglio chirurgico tradizionale, ma con una piccola incisione che consente il passaggio di un tubo sottile, ovvero il laparoscopio. Gli interventi in laparoscopia sono, rispetto agli interventi tradizionali (laparotomia), meno dolorosi. Consentono un recupero funzionale (ripresa dell’alimentazione, della deambulazione e una precoce dimissione dall’ospedale) più rapido e per tali ragioni, hanno anche un rischio di complicanze infettive e cardiopolmonari più basso. Inoltre riducono, rispetto agli interventi chirurgici tradizionali, le perdite ematiche intraoperatorie.
In base ai dati Agenas sull’ospedalizzazione per appendicectomia laparoscopica, in Calabria la possibilità di essere operati di appendicite per via laparoscopica (0,17 per cento) è quattro volte inferiore alla media nazionale (0,74 per cento) e ben dieci volte inferiore rispetto alla regione più virtuosa, ovvero la Valle d’Aosta (1,79 per cento), dimostrando come anche nell’accesso alle tecniche chirurgiche più avanzate e sicure esista un gradiente geografico, o dovremmo dire politico, molto evidente.
Forse è giunto il momento di tornare a esaminare i dati con obiettività, liberi da ideologie che offuscano la visione, per valutare l’uso delle risorse e definire obiettivi chiari, il cui raggiungimento possa determinare finalmente la sostituzione dei responsabili o la loro eventuale conferma.