UniCredit, la seconda banca più grande d’Italia, ha deciso di fare un’operazione economica italianissima proponendo un’offerta pubblica di scambio a un’altra banca italiana, Banco Bpm, per creare un colosso nazionale da diciannove milioni di clienti e la terza banca europea per capitalizzazione di mercato. Sulla carta, sarebbe il sogno proibito di qualsiasi governo di destra-centro, nazionalista, e sovranista. Un trionfo tricolore da festeggiare mangiando una pizza sulle note di Mameli suonate al mandolino. E invece no. Per il vice presidente del Consiglio Matteo Salvini, quello del «prima gli italiani» e della svolta nazionalista della sua Lega (ormai non più nord), «UniCredit ormai di italiano ha poco e niente: è una banca straniera». E per questo bisogna impedire questa operazione, usando il golden power, lo strumento in mano al ministero dell’Economia per impedire acquisizioni sgradite e proteggere gli interessi strategici del Paese.
Infatti per il leader della Lega, UniCredit sarebbe straniera perché «questo dice la composizione azionaria», come ha chiarito ieri dopo un convegno sul Ponte sullo Stretto. E poco importa che la sede legale di UniCredit sia a Piazza Gae Aulenti, a Milano, e che tra i suoi azionisti più rilevanti ci siano Fondazione Cassa di Risparmio di Torino, Fondazione Cariverona e la Delfin S.à.r.l.: la holding della famiglia Del Vecchio; ciò che conta è buttarla lì per vedere «l’effetto che fa», alla Jannacci, Enzo, per fugare qualsiasi dubbio su quella J poco italica.
Forse a trarre in inganno il ministro dei Trasporti è stato il nome UniCredit, così come il cognome del suo romanissimo amministratore delegato Andrea Orcel, solo perché nessuno dei due termina con una vocale finale. Eppure Salvini dovrebbe essere abituato alle campagne elettorali nel Nord-Est, dove incontrare cognomi del genere è la norma. Tra l’altro immaginiamo in questi giorni il timore della triestina Generali di essere percepita, dal novello cartografo padano, come una compagnia di assicurazioni francese, e non come un colosso italiano, solo perché il suo amministratore delegato Philippe Donnet è transalpino. Che sarebbe un po’ come dire che il Real Madrid è italiano solo perché lo allena Carlo Ancelotti.
Non possiamo aspettarci una gran conoscenza della geografia da parte del ministro dei Trasporti che un tempo indossava la maglietta con la scritta «Padania is not Italy», ma almeno pretendere un po’ di nazionalistica coerenza nel temere l’interferenza straniera. Invece Salvini si è mostrato piacevolmente cosmopolita nel lodare gli attacchi alla magistratura italiana da parte di Elon Musk. Ricordate? A settembre, l’imprenditore metà sudafricano e metà americano aveva attaccato su X il pm di Palermo augurandogli sei anni di prigione solo per aver accusato Salvini di sequestro di persona per aver impedito lo sbarco di migranti dalla nave Open Arms nel 2019. Poi qualche settimana fa Musk aveva attaccato anche il Tribunale di Roma che ha sospeso la convalida del trattenimento per sette migranti portati in Albania. «Ha ragione», aveva commentato il leader della Lega, che a marzo di quest’anno ha aperto le porte ai satelliti privati di Musk sul suolo italiano, con buona pace della sicurezza nazionale: «Da ministro delle Infrastrutture mi farebbe molto comodo avere Starlink nelle aree attualmente disconnesse».
Nella geografia salviniana non mancano gli appelli a leader stranieri per insegnare a noi italiani come vivere. Attendiamo lezioni dal premier ungherese su come gestire i migranti: «Il premier Orbán difende i confini, difende le banche, difende la moneta e blocca le immigrazioni»; e aspettiamo dal presidente degli Stati Uniti appena eletto che mantenga quanto auspicato da Salvini nel 2017: «Santo Trump, la Nato è obsoleta, avere il nostro territorio disseminato di basi è assolutamente inutile». Parole profetiche visto poi quanto accaduto in Ucraina. E a proposito di Russia, come non ricordare nel 2015 il lungimirante post in cui Salvini propose al mondo: «Cedo due Mattarella per mezzo Putin».
A grattare meglio il mappamondo, si scopre che l’interesse di Salvini su Bpm non è nazionale, ma regionale. La Lega è ormai in un declino elettorale che va avanti da anni, con percentuali da prefisso telefonico nelle regioni sotto il fiume Po, con il rischio concreto che anche in Veneto la presidente del Consiglio Giorgia Meloni imponga un candidato di Fratelli d’Italia. Un’acquisizione di Bpm da parte di UniCredit, un colosso italianissimo, ma di respiro più internazionale, sarebbe stato usato dalla fronda interna leghista come l’ennesima clava politica per accusarlo di non fare gli interessi del nord, come se una banca smettesse dalla sera alla mattina di sostenere le piccole e medie imprese settentrionali. Molto meglio dal punto di vista elettorale l’idea di un terzo polo bancario nazionale (Bpm-Anima-Monte dei Paschi di Siena) che faccia concorrenza a Intesa e UniCredit. Insomma, per Salvini vengono prima alcuni italiani, quelli che decide lui.
Banco Bpm per ora ha rifiutato autonomamente l’offerta, senza far intervenire il governo con il suo golden power, ma poco importa. Abbiamo ormai capito che nella geopolitica variabile del leader della Lega il sovranismo diventa flessibile in base ai suoi interessi. Che a pensarci bene è una cosa molto italiana, come direbbe Stanis di Boris, anche lui nostro connazionale, nonostante la consonante finale.