Dramma comuneLa catastrofe di Valencia, l’impreparazione europea e i timori per il voto americano

La tragedia umana e ambientale vissuta dalla Spagna nell’ultima settimana riflette l’incapacità del continente di fronte alle crisi. E dopo il 5 novembre ai tanti problemi potrebbe aggiungersi anche una Washington guidata da Trump

AP/Lapresse

Crolla la Spagna, l’amata Spagna, terra amica, meta dei giovani, culla di storia e cultura, era ieri che simboleggiava forza, dinamismo, modernità, il gran calcio e il tennis, Pedro Almodóvar e Javier Marías e mille altre cose ancora, un governo di sinistra pura, una monarchia tutto sommato seria.

Era ieri, anzi quattro giorni fa. Poi è arrivata l’apocalisse. Il paragone è fuori luogo, ma è stato una specie di 11 settembre, sono crollate non le Torri ma le strade e le piazze di Valencia. Un numero di morti e dispersi enorme, intollerabile, persone affogate nelle macchine trascinate dal fango, dalla furia dell’acqua, negli scantinati, bambini affogati.

Ieri c’è stata l’inevitabile reazione della gente contro Pedro Sánchez, il re Felipe, la regina, il governatore della Comunità autonoma Carlos Mazón. Erano decenni che in Europa non si assisteva a una contestazione simile verso il potere. Al premier hanno gridato «assassino», gli hanno tirato un bastone mentre la regina Letizia piangeva. La crisi politica è nei fatti. Ci sono stati troppi morti: la rabbia è incontenibile. La Spagna giovane, la generazione di Carlos Alcaraz e di Rodri, si è mobilitata con uno slancio commovente, le mani nel fango, le gambe inzuppate, spalando detriti mentre pioveva ancora.

La catastrofe spagnola, non si sa quanto arginabile, sembra simboleggiare nel modo più funesto la condizione della vecchia Europa che non sa cosa fare se c’è un’alluvione o un terremoto: il Giappone o anche la Florida sono altri mondi. In Emilia-Romagna ancora aspettano i soldi per riparare i danni delle piogge dell’anno scorso. Non si ha notizia di iniziative serie nel campo della prevenzione e nemmeno in quello degli interventi (se si eccettua il fatto incomprensibile del governo che ha cacciato il bravissimo ex responsabile della Protezione civile Fabrizio Curcio).

L’Europa, al di là della catastrofe spagnola, non marcia. Sono lontani i giorni, pur drammatici, del Next Generation Eu, quando l’Europa messa in ginocchio dal Covid varò un piano da settecentocinquanta miliardi per rilanciare il Vecchio Continente. Oggi la farraginosa Ue, a cinque mesi dalle elezioni Europee, non dà particolari segni di vita. La Germania è ferma per la prima volta dal dopoguerra. La Francia è in crisi economica (ma osserviamo en passant che dopo la formazione del governo di Michel Barnier non ci sono stati gli sfracelli che la sinistra auspicava). L’Italia è anch’essa ferma sia sotto il punto di vista economico che da quello delle riforme. A est l’Ucraina sembra perdere terreno. In molti Paesi cresce la destra sovranista e xenofoba.

Su tutto ovviamente incombe il fantasma di Donald Trump, la cui vittoria condannerebbe l’Europa a un inedito isolamento e a una paurosa debolezza tra lo stesso Trump, Vladimir Putin e Xi Jinping. Dal punto di vista economico – ha scritto il Sole 24Ore – le sicure guerre commerciali del vecchio-nuovo presidente americano farebbero dell’Unione europea una delle principali vittime. Il 5 novembre pertanto si decide anche dell’Europa. E della Spagna amata e amara. Il disastro di Valencia si inquadra dunque in uno scenario già drammatico: ed è come se ne fosse il frutto più amaro e indicibilmente disumano, nella terra carissima dove la vita e il sogno furono compagni, e adesso non più.

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