Due popoli, due Stati UnitiLa follia dei proPal proTrump, e il miraggio di un nuovo miracolo ucraino

I liberal filo palestinesi vogliono punire Kamala perché non ha preso le distanze dalla politica filo israeliana di Biden, infischiandosene dell’alternativa infinitamente peggiore (sia per Gaza sia per gli Stati Uniti). Ma occhio alla piccola comunità ucraina della Pennsylvania

LaPresse

Un amico americano preoccupato per quello che legittimamente, ma erroneamente, definisce «genocidio a Gaza» mi ha mandato un post dolente e molto argomentato di un giornalista e scrittore suo connazionale che, pur elencando tutte le responsabilità morali e politiche di Kamala Harris per aver condiviso la linea di Joe Biden su Israele e, peggio ancora, per non volersene distanziare, lascia intendere a malincuore che l’elezione di Donald Trump probabilmente sarebbe un’alternativa peggiore a quella di una presidenza Harris. Ma, in ogni caso, non rimprovererebbe nulla agli elettori che invece insistono sul voler far pagare ai democratici il loro sbilanciamento a favore di Israele.

Il post è girato molto su Instagram e, mentre scrivo, ha raccolto migliaia di like e di commenti, la maggior parte dei quali costituiscono una controprova della fallacia argomentativa dell’autore del post, e di chi lo ha condiviso avendo a cuore la causa palestinese.

La gran parte dei commenti di apprezzamento del post sono di cittadini americani che voteranno, o hanno già votato, per Jill Stein, la candidata dei Green nota per essere una marionetta putiniana fin dal 2016, quando vinse Donald Trump contro Hillary, e lei era lo strumento politico con cui il Cremlino aveva inizialmente progettato di manipolare le elezioni presidenziali. Stein non ha nessuna possibilità di superare lo zero virgola (nel 2016 prese l’1,1 per cento, e vinse Trump; nel 2020, con Trump presidente uscente, quando i russi avevano altre priorità, lei non si candidò), ma in un’elezione come questa di martedì che sarà decisa da qualche decina di migliaia di voti divisi in sette Stati, anzi in sei piccole contee, ogni consenso sottratto all’avversario e dirottato altrove varrà più che doppio. I Verdi europei hanno lanciato un appello alla Stein affinché si tolga dalle scatole e sostenga Kamala, ma non avrà nessun effetto: il ruolo di Stein è esattamente quello di far perdere Kamala Harris, oltre a quello di promuovere la propaganda putiniana in America.

Non bisogna essere dei filosofi teoretici per capire che, se hai a cuore la sorte dei palestinesi, Donald Trump è peggio pure di Gengis Khan, figuriamoci di una tradizionale Amministrazione democratica che, fin dai tempi di Bill Clinton, lavora per una soluzione “due popoli, due Stati” e per limitare le azioni militari del governo estremista di Benjamin Netanyahu.

A Trump non interessa nulla dei palestinesi, e in verità nemmeno degli israeliani, Trump è uno che pensa solo ai fatti suoi, uno a cui piacciono gli uomini forti con cui concludere affari, e non avrebbe alcun problema a dare il via libera a trasformare la Striscia Gaza o qualsiasi altro posto del mondo in un parcheggio.

L’accusa che Trump e i picchiatelli del Maga eletti al Congresso fanno quotidianamente all’Amministrazione Biden, inoltre, è opposta a quella mossa dai proPal americani: Biden e Harris non starebbero aiutando a sufficienza Israele e anzi vorrebbero liberarsi di Netanyahu. Non so se sia vero o no, so che i proPal dovrebbero pregare per la riconferma dei Democratici alla Casa Bianca. E invece…

Questa evidenza di cose vistissime non basta. L’idea che in un paese democratico l’elettorato abbia il diritto e il dovere di punire il governo che, su questa o su un’maltra questione, si è comportato male è un’idea che sarebbe normale in tempi normali, ma è un’idea astratta che si scontra con la realtà che stiamo vivendo. Trump non è un candidato normale. Trump non ha progetti di governo normali. Trump non sarebbe un presidente come gli altri, nemmeno come il primo Trump, visto che una ventina abbondante di suoi ex ministri e generali, compreso il suo ex vicepresidente, oltre ai principali funzionari delle amministrazioni Reagan, dei due Bush, più i consiglieri dei precedenti candidati presidenti repubblicani McCain e Romney, non solo non lo voteranno, ma hanno avvertito in tutti i modi gli americani che Trump rappresenta un pericolo per la democrazia, ed è un fascista fatto e finito.

La risposta di Trump a queste accuse dei suoi ex collaboratori e del mondo conservatore è quella di evocare la fucilazione di Liz Cheney, l’ex deputata repubblicana e figlia dell’ex vicepresidente Dick Cheney, dopo che i suoi già avrebbero voluto impiccate il suo vicepresidente Mike Pence durante l’assalto al Congresso di Washington del 6 gennaio 2021. Trump minaccia anche l’uso dell’esercito e lo strumento del carcere per fermare e punire non solo gli immigrati, ma anche i suoi avversari politici definiti «nemici interni», come nella peggiore tradizione dei regimi autoritari e fascisti.

Non è necessario elencare ogni singola enormità sciorinata da Trump in questi giorni, compreso il desiderio di avere generali come quelli che aveva Hitler, un modello comportamentale che del resto – sempre secondo Trump – aveva fatto cose buone, e non serve nemmeno ricordare la sua passione per i dittatori contemporanei di ogni latitudine, dalla Russia alla Corea del Nord, per rendersi conto che Trump non può essere nemmeno dopo l’assunzione di sostanze psicotrope un’opzione migliore di Harris per chi vuole fermare la guerra a Gaza.

Non voglio spingermi fino a pensare che al centro dell’argomentazione proPal contro Kamala ci sia, come ha raccontato ieri il New York Times a proposito di un sindaco arabo-musulmano del Michigan e pro Trump, un’evidente vicinanza ideale tra l’autoritarismo trumpiano, quello dei suoi amichetti imperialisti russi a difesa dei valori tradizionali, e il fondamentalismo islamista espresso da Hamas, a cominciare dall’odio nei confronti della società aperta, della libertà delle donne, dei canoni morali di pudore e onore da imporre alla società limitando l’autonomia privata.

Facciamo finta che questo argomento, e anche la storica connessione ideologica tra il nazismo e l’islamismo, non siano fattori che invece qualcuno in realtà prende in considerazione per preferire Trump, nobilitando poi la scelta con una motivazione etica, pacifista e umanitaria a favore dei palestinesi.

La fallacia argomentativa dei proPal scettici su Harris si confronta con un altro problema politico, prioritario rispetto a qualsiasi altro: oggi non c’è niente di più urgente che difendere la democrazia e lo stato di diritto, minacciati da Trump secondo quanto dicono apertamente i nuovi trumpiani, entusiasti, e anche i vecchi trumpiani, terrorizzati da quello che potrebbe fare quest’uomo.

Soltanto se resisteranno le colonne portanti della convivenza civile, e le fondamenta della casa comune, poi saremo liberi di dividerci sulle politiche da adottare su questo o quel tema. Prima però c’è da difendere la società aperta. Se non c’è democrazia e se non c’è stato di diritto in America, e di conseguenza in Europa, la nostra civiltà è finita, non solo quella di Gaza.

La questione palestinese è potenzialmente decisiva rispetto alle elezioni americane perché, stando ai sondaggi e alle notizie riportate dai giornali, se Donald Trump riuscisse a vincere di un soffio la presidenza ci riuscirebbe grazie anche alla movimentazione dei ProPal, a quel milione scarso di americani di origine araba residenti in Michigan, e alla – vedremo quanto sciagurata – campagna estiva per convincere Kamala Harris a non nominare come suo vicepresidente Josh Shapiro, l’amatissimo governatore della Pennsylvania che quasi due anni fa ha distaccato l’avversario trumpiano di quindici punti e oggi è il governatore con il migliore indice di gradimento d’America.

I liberal proPal non volevano Shapiro perché è ebreo, solo per questo, non perché sia più filo israeliano degli altri democratici, o di Tim Walz, ma esclusivamente perché ebreo. Kamala ha considerato anche altri aspetti di Shapiro prima di preferirgli Walz, a cominciare dall’evidente ambizione personale del governatore, ma alla fine ha scelto Walz malgrado sapesse perfettamente che senza la Pennsylvania nella sua colonna il presidente eletto sarà quasi certamente Trump. Non aver giocato la carta migliore a disposizione per vincere prima in Pennsylvania, e poi nel Collegio elettorale, soltanto perché una parte estrema del mondo liberal, ignorante e razzista, non lo voleva in quanto ebreo rischia di non essere stata una grande idea.

Dunque si ritorna al messaggio del mio amico e al post su Instagram del giornalista di sinistra: oggi chiamiamo “virtue signaling”, segnalazione di virtù, quello che un tempo chiamavamo farisaismo, ovvero la postura affettata, e spesso artefatta, per ostentare un attivismo militante a favore di valori morali che sui social riscuotono tanti like facili e tanti cuoricini di approvazione, peraltro senza alcun impegno o rischio. Solo che questa volta il costo non è zero, questa volta il costo è la fine della democrazia in America e il trionfo dei valori reazionari e illiberali di Hamas, dei nazi, dei rossobruni di Putin, e dei loro utili idioti occidentali.

Mentre scrivo, leggo che in Pennsylvania, dove secondo i sondaggi Trump e Harris sono appaiati e nel 2020 Biden vinse con uno scarto di soli 80mila voti, ci sono centoventimila americani di origini ucraine che per continuare la politica di sostegno alla madrepatria dell’Amministrazione Biden potrebbero votare per far vincere Kamala e sconfiggere l’amico di Putin.

Sarebbe davvero speciale se, dopo aver già salvato con il loro coraggio l’Europa, gli ucraini riuscissero con il loro voto a salvare anche l’America e il resto del mondo libero.

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