La mia vita in Pakistan, penso ora, era come un campo brullo, senza nulla per cui lottare o in cui sperare, con un vento che soffiava forte attraverso quello spazio piatto. Gli anni che ho trascorso lì mi perseguiteranno per sempre. La mia mente vaga sui campi di Lahore, disegnando cerchi piccoli e grandi. Ma il posto piatto non è il Pakistan. Capita di essere fraintesi. Specie se si è una donna non bianca. No: il posto piatto non è il Pakistan. Il Pakistan non è il luogo del trauma, della mancanza, del dolore.
Il posto piatto è ciò che accade quando la propria realtà non combacia con quella di tutti gli altri. Quando la propria verità è in netto contrasto con un mondo che la nega. Che non la vede. Il Pakistan è stata la parte reale della mia esistenza. Se provo a ridurre la vita all’osso, ciò che si cristallizza ai bordi e si sfalda è il Pakistan. È lì che sono accadute cose a cui gli inglesi non vogliono pensare.
Il giardiniere che la polizia ha torturato infilzandogli nel polpaccio bastoni appuntiti di legno fino a farlo urlare. I bambini che frugano tra i cumuli di spazzatura. Bambini affetti da poliomielite. Bambini con arti mancanti. Bambini con metà del viso ustionato, un occhio spalancato per sempre. Bambini che stavano molto, molto peggio di quanto io sarei mai stata.
Questa violenza, questa cattiveria, è reale in Gran Bretagna come lo è in Pakistan. Accade in Gran Bretagna, adesso, così come nei luoghi che la Gran Bretagna ha lasciato in frantumi quando ha finito di mettere in atto le sue fantasie imperialiste.
Ma la Gran Bretagna continua a non volerne sapere. Quando era un impero, la Gran Bretagna spediva la sua spazzatura all’estero, nelle sue colonie. Esportava con la forza il suo scadente tessuto di cotone grezzo in India, ad esempio, distruggendo le industrie dell’Asia meridionale. (A dire il vero manda ancora all’estero la sua spazzatura – il prodotto contaminato del suo riciclo, i suoi cumuli di rifiuti – per farne il problema di altri Paesi che non ospitano bianchi e che quindi sembrano avere meno importanza).
Ma più letteralmente esportava la sua spazzatura psicologica. I suoi guai, i suoi rancori, i suoi scrupoli morali. Sotto il Raj britannico l’omosessualità fu dichiarata reato penale, mentre ora la Gran Bretagna, apparentemente progressista, guarda all’omofobia nelle sue ex colonie e disapprova con decisione. La verità è che l’esistenza stessa del Pakistan – lacerato dal fanatismo, dall’intolleranza e dalla rigidità – deriva dalle filosofie che l’impero ha portato con sé.
La politica britannica del divide et impera alimentò le tensioni tra indù e musulmani, fino a che ad alcuni musulmani non è parso che l’unico modo per sopravvivere nel subcontinente fosse avere uno Stato proprio. Il Raj aveva continuato a immaginare il Paese e le sue caratteristiche essenziali, finché il Pakistan non si era staccato con la forza dall’impero sofferente e in crisi.
E poi, quando nel 1947 Cyril Radcliffe tracciò una rozza linea lungo il subcontinente, e quella divisione scatenò violenza, stupri e omicidi, la Gran Bretagna si rifiutò di ascoltare.
Nel 1962 Mountbatten, l’ultimo viceré britannico dell’India, diffuse il bilancio delle vittime a dir poco minimizzando: «Non più di duecentocinquantamila morti». Il conteggio poteva salire fino a cinque milioni. Ma non lo sappiamo, proprio perché la Gran Bretagna non si è presa la briga di sapere; era troppo impegnata a darsela a gambe dopo quasi cento anni di governo, preoccupata per il costo esorbitante e imprevisto delle guerre mondiali.
L’Occidente ha una strana pretesa: che in Oriente i non bianchi non siano in qualche modo traumatizzati da cose che farebbero vacillare qualunque bianco. E siccome in Oriente sono «normali» – una normalità orribile, in questo caso, nata da una confusa ritirata di un impero violento – quelle cose non possono lasciare segni nelle persone che le vivono.
Come mia nonna, che aveva vissuto la Partizione. Come mio padre, che a diciassette anni aveva combattuto una guerra civile. Nessuno dei due parlava mai della propria esperienza. Perché parlare se sai già che nessuno ascolterà, che a nessuno importerà?
Traduzione di Sara Reggiani
Tratto da “Terre piatte” (Add Editore) di Noreen Masund, pp. 245, 18,00€