Finalmente! Un desiderio che frullava nella testa di Riccardo Orfino da tempo, e potrebbe essere il primo realizzato di una lunga serie: portare a New York Diego Rossi, un cuoco con cui condivide il rispetto della materia prima e non solo. E così alla tenera età di 39 anni l’estroso cuoco di Trippa a Milano è sbarcato (atterrato) per la prima volta in vita sua negli Stati Uniti, nientepopodimeno che nella Grande Mela. Come detto, lo ha invitato Riccardo Orfino, chef di Osteria 57, Alice e anche di tutto quello che è contenuto nello speciale “contenitore” Travelers Poets & Friends che è stato il palcoscenico di una serata di grande successo dove Diego si è esibito nel cavolo arrosto con uova di trota e salsa alle erbe, e poi polpette di cuore fritte con maionese al pimenton.
Quattro postazioni con quattro chef: Orfino, naturalmente, con uno spaghetto ai tre pomodori e bresaola di tonno e crudo di pesce “dry aged”, poi Taylor Hester, l’executive di Roscioli che ha aperto un anno fa, ovviamente master commander di carbonara, cui ha affiancato un supplì con spaghetto al ragù e mozzarella, infine Jeremiah Stone, chef di Bar Contra che ha preparato trippe brasate con cicoria stufata e salsa verde accompagnata con un cocktail a base di Cynar, sciroppo di semi di sedano e champagne. Titolo della serata “Not so Fancy”, ogni riferimento a quello che rappresenta la fiera del cibo di giugno a New York (si chiama “Fancy Food Show”) è tutt’altro che casuale…
Duecento ticket da 85 dollari che comprendevano gli assaggi, anche il bis volendo, e due drink sono il risultato pratico dell’entusiasmo che ha raccolto la proposta, tra Orfino e Hester sono stati cucinati quasi venticinque chili di pasta.
Tutto di un altro tenore l’appuntamento presso la sede newyorkese di Roscioli, dove Diego è stato l’autore di un articolato menu degustazione, “tasting menu” come si dice qui: vitello tonnato, carpaccio con acciuga del Garda e nocciole piemontesi, fregola con ragù di capra, insalata di puntarelle, cavolo nero e pecorino, panna cotta con mandorle e riduzione di barolo chinato, il tutto per 200 dollari, 300 con il wine pairing.
Per preparare i suoi piatti Diego Rossi è andato, accompagnato da Riccardo Orfino che è un habitué – come tutti gli chef che hanno a cuore la qualità del prodotto – al Union Square Greenmarket, a Union Square nel cuore di Manhattan. «Un posto incredibile, come da noi non c’è» ha detto a Linkiesta Gastronomika lo chef di Trippa: «incontrare in persona gli agricoltori, vedere la straordinaria scelta di vegetali sul banco è stato un bel modo di prendere contatto con questa città incredibile. Se uno non lo vede non crede che nel cuore di Manhattan ci possa essere un mercato di grande qualità».
In una settimana a New York, a parte le due occasioni di lavoro, Diego Rossi ha avuto tempo di scoprire la città: «Abbiamo girato tanto, attratti soprattutto dall’architettura Liberty e Déco: una mia passione» ha raccontato Diego Rossi. «Mattia, di Roscioli, ci ha fatto da guida, il Chrysler Building in assoluto il mio favorito. Poi in un’incursione a Williamsburg ho scoperto l’edificio – oggi ristrutturato mantenendo la struttura esterna – della fabbrica di Domino Sugar, il più grosso produttore di zucchero degli Stati Uniti. Visitando Dumbo mi sono ritrovato nelle atmosfere di “C’era una volta in America”, ma il momento topico è stato quando il taxi è passato davanti al palazzo di “Ghostbusters”: non sapevo esistesse per davvero, e ho chiesto al driver di fermarsi per fare le foto. Poi sono stato ad Harlem con Ricky Russo, una guida italiana che fa dei tour particolari fuori dei canoni turistici, è stato un suggerimento azzeccato del comune amico Vittorio Buongiorno, regista e scrittore. Mi ha colpito molto infine l’aria pulita della città, tipica ovviamente di una città che si affaccia sul mare, qualcosa che a Milano purtroppo ci sogniamo».
Naturalmente non tutto è meraviglioso in città. Le problematiche di New York sono infinite e la criticità molte, ma c’è una cosa sopra le altre che a Diego Rossi non è piaciuta e riguarda proprio il mondo della ristorazione: «Questo sistema delle mance, che oggi è arrivato al venti per cento, non mi piace per niente. Mi rendo conto che quei dollari sono la parte più importante di chi lavora in sala, ma non è giusto. Così l’imprenditore riduce il suo rischio d’impresa, infatti spesso la sala è improvvisata senza nessuna professionalità, solo sorrisi. Non ci siamo».
«Poi mi ha colpito l’enorme quantità di gente in difficoltà, homeless, tossicodipendenti, persone con evidenti disturbi mentali, in contrapposizione con una città carissima, dove quindi le disuguaglianze sono scioccanti. Lo so che è una cosa nota, ma vederla di persona fa la differenza».
E i ristoranti? La chiacchierata con Diego Rossi non poteva che concludersi con un’indagine sui ristoranti e bar visitati. «Sul gradino più alto del podio indubbiamente Sushi Noz, una straordinaria esperienza giapponese, poi Atoboy, che abbiamo visitato la sera prima di partire, famoso per la sua cucina moderna di ispirazione coreana a un prezzo accessibile (75 dollari per il menu degustazione di quattro portate, NdR). Tra i posti meno conosciuti mi è piaciuto molto un cinese a Williamsburg, Birds of a Feather, mi ha invece deluso il famoso pollo fritto di Silvia’s ad Harlem, ma è stato emozionante pensare che a quei tavoli mangiavano Martin Luther King e Malcolm X. Un capitolo a parte merita il bere. Posti come Baku, o Fanelli che è aperto del 1847, sono fantastici, ma il Bowery Hotel, con le sue atmosfere, è pazzesco. Infine una menzione per le colazioni alla caffetteria La Cabra, un marchio danese che oggi è un po’ in tutto il mondo, e naturalmente anche a New York, dove per due caffè e due buonissimi dolci sfogliati abbiamo speso quaranta dollari, ma in un posto molto più modesto ne abbiamo spesi trentasette, quindi per essere qui non particolarmente caro. Insomma: New York mi è piaciuta molto, ma io resto un genuino ragazzo di campagna. Non credo ci vivrei!».
Tutte le fotografie sono di Stefano Vegliani