Ogni tre mesi, in ossequio a una liturgia parlamentare consolidata e ormai puramente protocollare, prima della riunione del Consiglio europeo il Capo del Governo va a rendere comunicazioni alle Camere, per presentare le proposte e gli impegni che intende portare a Bruxelles. La procedura, che serve sulla carta per certificare l’approvazione da parte del Parlamento degli indirizzi governativi, è invece usata generalmente per raccogliere i cahiers de doléances dei partiti di maggioranza contro l’Europa matrigna e per promettere di vendicare gli abusi perpetrati contro la Patria dalle euro-burocrazie usurpatrici.
Se si escludono Mario Monti e Mario Draghi, gli unici che non sono partiti da Roma promettendo di battere i pugni sul tavolo bruxellese – e anche quelli che ne sono tornati ottenendo i vantaggi più tangibili per l’interesse nazionale: il whatever it takes e il Piano nazionale di ripresa e resilienza – non c’è presidente del Consiglio della storia recente che, ciascuno col suo stile e la sua misura, non abbia usato questi appuntamenti per lamentarsi dell’Europa e per arruffianarsi l’Italia accomodata nel lamento anti-europeista e desiderosa di credere che tutto il male che sentiva crescere in sé nascesse in realtà fuori di sé, in quelle lande fredde e lontane.
Le cosiddette colpe dell’Europa, del resto, sono sempre state funzionali al racconto dell’innocenza di questa Nazione, come chiama l’Italia Giorgia Meloni, che del vittimismo ricattatorio è stata un interprete scatenata dai banchi dell’opposizione e tale è rimasta anche da quelli del Governo, da dove, come ha fatto ieri e l’altro ieri al Senato e alla Camera, ha salutato la nuova maggioranza europea (che è quella vecchia, più lei e neppure il suo partito Ecr) come un miracoloso regime change, cogliendo l’occasione per inscenare con il suo caratteristico orgoglio coatto – le smorfiette, le vocine, il trollaggio e il dileggio delle posizioni altrui – la solita pièce anti-europeista e la consueta tiritera su tutti gli errori che l’Ue, fino all’arrivo dei patrioti nelle stanze dei bottoni, ha compiuto a danno dei popoli europei.
Anche in questa occasione, come nella precedente, Meloni non ha mancato di difendere l’amico Victor Orbán, discriminato, dice lei, dagli europeisti perché non la pensa come loro e non invece temuto da qualunque democratico onesto perché la pensa come Putin e rappresenta la paradossale normalità di un’Europa istituzionalmente disarmata o politicamente corriva (come nel caso di Meloni) con l’ignobile Quisling magiaro.
Anche in questa occasione, come in tutte le precedenti, Meloni ha glissato su tutti i problemi seri – tipo la spada di Damocle dei dazi statunitensi sulle produzioni europee, derubricata a diatriba commerciale – e sofisticheggiato su politicismi di Palazzo – ad esempio per spiegare perché il mancato voto della Lega per la Commissione Von der Leyen è meno antipatriottico del sofferto voto del Partito democratico per Fitto – che mandano in sollucchero i retroscenisti gossippari e paiono più rilevanti di scelte clamorose, ma a quanto pare invisibili o irrilevanti, come il veto annunciato al trattato di libero scambio tra l’Unione Europea e i paesi del Mercosur. E tralasciamo, per benigna solidarietà, l’inconsapevolezza dei saldi di finanza pubblica e della differenza tra saldo primario e surplus di bilancio.
Anche in questa occasione, insomma, la nuova Meloni ha dimostrato che se tutto quello che fa in Europa è oggi dettato da convenienze, circostanze e soprattutto necessità – particolarmente pressanti per un Paese in bilico come l’Italia – e quindi finisce inerzialmente per allinearsi a quel che fanno e chiedono i principali Paesi europei, tutto quello che la vecchia Giorgia pensa dell’Europa di oggi e di domani non è così diverso da quello che pensava ieri, quando faceva apparire moderata perfino la Lega per l’eurexit, proponendo lo scioglimento dell’area euro e la fine della moneta comune.
Se quando tocca fare politica a salire sul palco è sempre la Meloni d’antan, tocca credere che continui a essere lei quella vera, e che il suo avatar governativo – fortunatamente costretto a un’eteronimia senza veri spazi di manovra, né politica, né economica – non sia né un segno di cambiamento né di resipiscenza, ma rimanga il simulacro vuoto di un opportunismo obbligato.