Ripristino degli alberi Rischi e opportunità degli approcci convenzionali alla riforestazione

La rinascita delle foreste nelle zone più aride del Sahel ha ridato speranza agli agricoltori locali. Ne parla Tony Rinaudo, agricoltore e missionario laico australiano, nel suo libro “La foresta invisibile. Una speranza per un pianeta in crisi” (Ronzani Editore), di cui pubblichiamo un estratto

AP Photo/LaPresse (ph. Eraldo Peres)

Gli approcci convenzionali alla riforestazione sono costosi e richiedono molto lavoro. Ci scontrammo con dei problemi insormontabili. Provai tutto ciò che sapevo: lessi molto, consultai esperti del settore e mi feci un’idea dei progetti che portavano avanti. Sperimentai diverse tecniche. Piantammo specie esotiche: pratica standard all’epoca, perché le specie arboree indigene erano considerate poco redditizie e a crescita lenta; piantammo specie autoctone: gli alberi morivano in ogni caso. 

Ogni anno il Niger celebrava il trois août (il 3 di agosto) come giornata nazionale della piantumazione; per me non aveva alcun senso. In una buona annata, la stagione delle piogge in Niger durava solo quattro mesi: perché aspettare il mese precedente la fine delle piogge per piantare gli alberi, così da costringerli poi ad affrontare tutti gli otto mesi della stagione secca? Iniziammo quindi a piantare in concomitanza con i primi acquazzoni e, con chi era disposto a farlo, anche prima, per dare agli alberi un vantaggio. Avevamo un vivaio centrale e per portare gli alberi fino ai villaggi li dovevamo trasportare su lunghe strade dissestate; era costoso e alcuni alberi si danneggiavano nel processo, per cui incoraggiammo la creazione di vivai comunitari. 

Il concetto di vivai “comunitari” sembra meraviglioso, ma di solito poche persone aderiscono al progetto e tutto il lavoro ricade su uno o due individui, i più entusiasti. Quando il grosso del lavoro è fatto, però, tutti nella comunità pretendono la propria quota di alberi senza voler pagare. Cercai di promuovere vivai privati: erano generalmente gestiti meglio, ma poche persone erano disposte a darsi da fare o a pagare per gli alberi. Ad ogni modo, coltivare con successo alberi in un vivaio, dove pure si ha l’impressione di avere tutto sotto controllo, richiede cure costanti.

Nel pieno della stagione secca i vivai sono un’oasi di verde in un paesaggio per il resto arido; in una simile desolazione, attirano tutto uno zoo di creature invasive: lucertole che mangiano le foglie via via che spuntano, uccelli che dissotterrano i germogli in cerca di insetti e rospi che li schiacciano accovacciandosi sulla superficie umida e fresca dei sacchetti da piantagione; cavallette e bruchi spogliano le plantule dalle foglie e le termiti mangiano persino i vasi di polietilene nero, così che quando la plantula viene sollevata per il trapianto il terriccio si separa dalle radici. 

I vivai venivano sempre creati vicino al pozzo del villaggio, perché con le calure della stagione secca le plantule avevano bisogno di essere irrigate una o due volte al giorno; tuttavia, il pozzo è anche il luogo dove tutto il bestiame del villaggio si raduna in attesa di essere abbeverato – e non c’è erbivoro più vorace della capra quando ha tempo da perdere, uno stomaco vuoto e la capacità di penetrare anche la più intricata recinzione di spine. 

Va benissimo desiderare che la riforestazione sia sostenibile e replicabile per le comunità coinvolte; ma alcune cose, come pretendere che le recinzioni vengano costruite con cespugli e rovi, semplicemente non sono pratiche. D’altro canto, fornire recinzioni in filo metallico, che avrebbero offerto una migliore protezione dalle capre, aveva le sue limitazioni: merce rara e costosa, può essere facilmente rubato di notte da qualcuno che pensi di poterne fare uso migliore, come utilizzarlo per le proprie recinzioni o realizzarci jeep in miniatura per i turisti. Ma i problemi nel vivaio erano solo all’inizio. Era più probabile che gli alberi sopravvivessero se li si piantava subito dopo una pioggia abbondante – proprio quando qualsiasi agricoltore degno di questo nome era impegnato a piantare le proprie colture.

Risultava quindi difficile reperire abbastanza manodopera, specialmente negli anni in cui il cibo scarseggiava. L’ideale sarebbe stato irrigare le plantule appena dopo il trapianto, ma era un lusso: se pure sopravvivevano alla piantumazione, erano esposte a venti forti e a tempeste di sabbia che strappavano le foglie e ricoprivano le plantule, a volte completamente. Parassiti, erbacce, siccità e bestiame affamato contribuivano a vanificare i nostri sforzi. I pozzi erano generalmente profondi tra i quaranta e i cento metri. Prelevare l’acqua dal pozzo ogni giorno per un vivaio di dimensioni considerevoli è un lavoro che spezza la schiena e richiede molto tempo; bisogna essere molto motivati.

Riuscii a coinvolgere gli abitanti del villaggio e mi rimboccai le maniche, lavorando insieme a loro; talvolta dovetti ricorrere a degli incentivi (attrezzi o altri premi a ricompensa dell’impegno) per convincere le persone a prendersi cura degli alberi abbastanza a lungo da apprezzarne i benefici. Speravo che anche in seguito, senza di me, avrebbero continuato a piantare alberi.  Tuttavia, più degli incentivi credo sia efficace accompagnare le persone passo dopo passo in un viaggio di apprendimento, scoperta e adozione di nuove idee sulla base di conoscenza e comprensione.

Una volta, seguendo il consiglio del mio assistente invece che affidarmi al mio giudizio più avveduto, prestai del denaro a un capovillaggio perché acquistasse dei buoi: ovviamente non restituì mai il prestito, né risultò più efficace il suo contributo al ripristino degli alberi. Non si contano i progetti di sviluppo che si interrompono del tutto una volta speso l’ultimo centesimo. Nonostante tutti i miei sforzi, nulla funzionava in maniera efficace e sostenibile; per molti continuavo ad essere il “folle agricoltore bianco” dalle idee un po’ ingenue.  Da “La foresta invisibile. Una speranza per un pianeta in crisi” (Ronzani Editore), di Tony Rinaudo, 2024, pp. 240, €24,00. Grazie a World Vision

X