Con la stessa disinvoltura con cui rivendica la stima e l’attenzione di quelle élite europee e internazionali che fino a ieri additava come il principale nemico dell’Italia, nel fine settimana Giorgia Meloni è tornata ad abbracciare il presidente argentino Javier Milei, l’economista ultraliberista fautore della più drastica politica di tagli alla spesa pubblica dai tempi di Margaret Thatcher, applaudito come una rockstar dalla platea di Atreju. Evidentemente, e saggiamente, l’ospite d’onore deve avere sorvolato su alcuni dettagli della sua politica, come la totale liberalizzazione del trasporto privato (basta avere un’automobile in regola con revisione e assicurazione, e si può portare a pagamento chi si vuole). Ma non si tratta solo di Fratelli d’Italia.
Qualche giorno fa, sul Corriere della sera, Francesco Verderami ha raccontato della passione per Milei che ha travolto anche il solitamente compassato ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, che dopo avere accompagnato Meloni alla Casa Rosada sarebbe rimasto incantato dalle caramelline con la scritta «no hay plata» (non ci sono soldi) offerte dall’estroverso anfitrione, e da tutto il resto del suo scoppiettante repertorio. Al punto da aver piazzato anche una statuetta del presidente argentino con la celebre motosega sulla sua scrivania.
Per chi se ne fosse dimenticato, o pensasse legittimamente di avere capito male, stiamo parlando del vicesegretario della Lega, il partito che più di ogni altro negli ultimi dieci anni si è battuto per smontare la riforma delle pensioni e scassare i conti pubblici in ogni modo possibile (dopo il Movimento 5 stelle, e spesso assieme a loro, che almeno però hanno il buon gusto di non agitare la motosega). Un partito che ha fatto a gara proprio con Fratelli d’Italia sul terreno della propaganda anti-tagli e anti-austerità, contro la dittatura dei mercati finanziari e contro ogni limite all’uso politico della spesa pubblica.
Per non parlare delle crociate condotte in difesa dei balneari e di ogni altra corporazione, tipo i tassisti, difesi strenuamente da ogni forma di liberalizzazione e concorrenza imposte dai nemici dell’Italia, dall’Europa dei tecnocrati e dell’austerità, dalle élite liberiste e antinazionali che non a caso andavano tanto d’accordo con i dirigenti della sinistra. E che adesso, come Meloni ancora ieri ha orgogliosamente ricordato, vanno d’accordissimo anche con lei, solo che in questo caso il loro favore non è motivo di sospetto, ma di vanto (a scanso di equivoci, personalmente considero che l’indulgenza nei confronti di Meloni sia qualcosa di cui si dovrebbero vergognare le élite, semmai, non certo Meloni).
Naturalmente in tutto questo non c’è solamente il solito gioco delle tre carte. C’è un’idea più articolata, che spiega benissimo questo strano mix di liberismo e protezionismo, trumpismo e liberalismo, europeismo e sovranismo. Il succo è che la spesa pubblica si taglia ai nemici e si garantisce agli amici, esattamente come la concorrenza, le tasse e i conflitti di interesse, combattuti o promossi a seconda di chi ci guadagna e di chi ci rimette. Ecco la vera «via italiana» seguita dalla destra che oggi governa il nostro paese.