Dai laboratori del Karolinska Institutet di Stoccolma arriva una scoperta che potrebbe rivoluzionare radicalmente il trattamento dei tumori: i nanorobot di Dna, progettati per riconoscere e attaccare le cellule tumorali con una precisione senza precedenti. Questa ricerca, finanziata dalla Fondazione Knut e Alice Wallenberg, dal Consiglio europeo della ricerca (Ce), dal Consiglio svedese della ricerca e dall’Accademia di Finlandia e pubblicata sulla rivista Nature Nanotechnology, sfrutta la nanotecnologia per realizzare dei dispositivi microscopici capaci di colpire le cellule malate, lasciando intatti i tessuti sani.
I nanorobot infatti sono programmati per attivarsi solamente nell’ambiente tumorale. La capacità di distinguere le cellule sane da quelle malate rappresenta una svolta rispetto ai trattamenti oncologici tradizionali, che spesso compromettono anche i tessuti non ammalati, causando effetti collaterali nei pazienti.
L’idea di stimolare i recettori Tnf per combattere i tumori infatti non è nuova, ma finora nessuno era riuscito ad aggirare questo ostacolo. I ricercatori del Karolinska Institutet però sono riusciti a trovare una soluzione, racchiudendo le molecole all’interno dei nanorobot, rendendole inattive fino al momento opportuno.
Il gruppo di ricerca aveva già sviluppato in passato delle strutture costituite da sei peptidi (catene di aminoacidi, ndr) che fossero in grado di portare le cellule alla morte. «Questo nanomodello di peptidi (molecole costituite da brevi catene di amminoacidi collegati tra loro da legami peptidici, ndr) diventa un’arma letale – spiega Björn Högberg, professore presso il dipartimento di Biochimica medica e biofisica del Karolinska Institutet –. Se venisse somministrata come farmaco, inizierebbe a uccidere indiscriminatamente le varie cellule del corpo, il che non sarebbe l’ideale.
Per ovviare a questo problema, abbiamo nascosto quest’arma all’interno di una nanostruttura costruita con il Dna». In questo modo, le molecole diventano innocue per le cellule sane e non rischiano di danneggiarle. «Siamo riusciti a nascondere quest’arma in modo tale che possa attivarsi solamente in presenza di un tumore solido. Abbiamo creato una sorta di nanorobot in grado di colpire specificamente le cellule tumorali e ucciderle», prosegue Högberg.
Come funzionano
I nanorobot sono dei dispositivi progettati per operare su scala nanometrica e rappresentano una frontiera rivoluzionaria della biotecnologia: grazie alle loro dimensioni estremamente ridotte, sono in grado di interagire direttamente con le cellule. I ricercatori del Karolinska Institutet, tramite i nanorobot, hanno introdotto nei tumori delle molecole – i «ligandi» –, che si legano selettivamente a particolari proteine presenti sulla superficie delle cellule tumorali, chiamate recettori Tnf (Tumor Necrosis Factor). L’attivazione di questi recettori innesca un processo che porta alla morte programmata della cellula malata.
Per garantire la sicurezza del trattamento, i nanorobot sono progettati per non entrare in azione fino a quando non incontrano le condizioni tipiche del microambiente tumorale. Uno dei parametri chiave è proprio il ph: mentre le cellule sane hanno un ph neutro intorno a 7,4, le cellule tumorali vivono in un ambiente più acido, con un valore di circa 6,5. Solo in queste condizioni i nanorobot «si aprono», rilasciando le molecole bioattive.
I risultati dei test preclinici effettuati sui topi con carcinoma mammario sono promettenti: la somministrazione dei nanorobot ha portato a una riduzione del settanta per cento nella crescita tumorale rispetto ai topi a cui era stata data una versione placebo del farmaco. «Ora dobbiamo capire se questo funziona in modelli di cancro più avanzati che somigliano di più a quelli umani. Dobbiamo anche scoprire quali sono i possibili effetti collaterali, prima di testare la cura sugli esseri umani», spiega, Yang Wang, ricercatore del dipartimento di Biochimica e biofisica medica del Karolinska Institutet.
Nuovi orizzonti per le terapie oncologiche in Italia
In Italia una delle cure pionieristiche è la terapia cellulare basata sull’impiego di cellule Car-T (Chimeric antigen receptor T-cells). Le cellule T sono linfociti T, una categoria di cellule immunitarie. Giuseppe Fiume, professore di Biologia applicata presso il dipartimento di Medicina sperimentale e clinica dell’università di Catanzaro, sta lavorando a una terapia per curare i tumori che si basa sulla modifica, mediante tecniche di ingegnerizzazione genetica, dei linfociti T, per renderli capaci di riconoscere e attaccare le cellule tumorali.
«Nel nostro corpo si formano continuamente delle cellule tumorali che vengono “tenute a bada” dal nostro sistema immunitario – spiega Fiume –. Ma a un certo punto si crea una sorta di equilibrio tra cellule tumorali e sistema immunitario, per cui il sistema immunitario non risponde più correttamente contro il tumore, e quindi avviene quella che si chiama “evasione del tumore a opera del sistema immunitario”: il tumore sfugge al controllo del sistema immunitario. Questo avviene quando il tumore crea un microambiente che inibisce o indebolisce la risposta immunitaria, spesso tramite la produzione di proteine o molecole che “spengono” o rendono meno efficaci le cellule immunitarie contro il tumore».
Una terapia emergente consiste nell’ingegnerizzazione delle cellule immunitarie del paziente per rafforzarne l’efficacia contro il tumore. «Si prendono alcune cellule del paziente e si ingegnerizzano: si modificano in modo da far esprimere loro una proteina, un recettore chiamato Car (Chimeric Antigen Receptor), che riconosce specifiche proteine presenti sulle cellule tumorali, ed innesca una serie di eventi per cui la cellula immunitaria diventa più responsiva contro il tumore», spiega Fiume. In questo modo, vengono ridotte le possibilità del tumore di «evadere» e ad «addormentare» il sistema immunitario.
Questa terapia però ha dimostrato di avere degli effetti collaterali: «Nella terapia con cellule Car-T, si verificano effetti indesiderati perché stimoliamo fortemente le cellule immunitarie. Questa iperstimolazione dei linfociti T può causare una “tempesta citochinica”, provocando un forte stato infiammatorio. In alcuni casi, i linfociti T stessi sono diventati tumorali. Per questo, si è cercato di evitare l’uso di vettori virali che integrano il Car nel genoma in modo stabile e permanente, modificando i linfociti in modo definitivo», spiega Fiume.
Le strategie alternative si basano sull’uso dell’Rna messaggero, «che codifica il Car, dandolo alle cellule o sotto forma di grassi e particelle lipidiche, oppure inglobandolo in alcune vescicole che si fondono con la cellula. Una volta che l’Rna messaggero ha completato il suo compito, viene degradato».
In quest’ottica, sono stati promossi dei bandi del Piano nazionale di ripresa e resilienza per finanziare dei progetti di ricerca che trovino delle strategie alternative, a vantaggio della biosicurezza. Le università di Catanzaro e Brescia e Carebios – un’azienda di Ariano Irpino, nell’Avellinese –, stanno lavorando alla realizzazione di una piattaforma che si basa sull’impiego di organoidi tumorali per cercare nuovi metodi di ingegnerizzazione dei linfociti T.
«La piattaforma si basa sugli organoidi tumorali: non sono più cellule tumorali cresciute in 2d, ma organoidi tridimensionali, che mimano molto bene il tumore. In questo modo possiamo valutare la risposta antitumorale dei linfociti ingegnerizzati con diverse strategie, comparandole per capire qual è la metodica di ingegnerizzazione più efficiente», prosegue Fiume. La piattaforma è una sorta di «bio-banca» di organoidi.
Ogni organoide rappresenta un tumore specifico ed è incubato con cellule ingegnerizzate secondo strategie diverse, con diversi Car che attaccano determinati tipi di tumori con delle caratteristiche peculiari. «Stiamo agendo su due fronti: da un lato vogliamo trovare una strategia ottimale di ingegnerizzazione dei linfociti T, dall’altro cerchiamo di modificare il Car, il recettore che facciamo esprimere alla cellula linfocitaria, che potrebbe riconoscere in modo più o meno forte la cellula tumorale.
La piattaforma dovrebbe permettere di analizzare le diverse strategie e capire, tra una vasta gamma, qual è la migliore, soprattutto nell’ottica della biosciurezza», conclude Fiume, sottolineando che l’obiettivo del suo team è quello di creare una piattaforma validata, pronta per un uso commerciale entro il 2026.